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Ci sono delle distanze nette che separano i tre, sebbene siano tutti riconducibili al medesimo periodo storico. La loro difformità, a parer proprio, sta nel diverso approccio con la poesia, nel diverso modo di affrontare il dolore, anche se molte tematiche sono afferenti ( A MIA MADRE- Montale- e LA MADRE – Ungaretti)

Ebbene, ci viene da dire, cosa chiedono questi poeti alla loro poesia?

Se si parla di Montale, allora quasi per associazione libera, pensiamo alla “Divina Indifferenza”, al dialogo muto con gli oggetti, ad un mondo metafisico che sta per dissolversi, a cui la religione non può porre rimedio.

Se penso ad Ungaretti, immagino “I fiumi”, la poesia, secondo il mio punto di vista, più bella in cui il poeta si auto ritrae in un momento di pace, durante lavacri immaginari nei fiumi che simboleggiano metaforicamente le sue tante patrie. Questo voluto ritorno alla natura , è uno stato di grazia, una catarsi, un continuo riconoscersi “docile fibra dell’universo”. E’ un momento magico che lo distoglie dal languore circense della dolina, dall’albero mutilato, dai muri fatiscenti di S. Martino.

Saba è il più poliedrico di tutti. Le analogie con i due poeti precedenti non sono numerose. Solo nelle ultime raccolte il poeta mitteleuropeo aderisce all’ermetismo più palesemente. Sembra addirittura allievo di Pascoli nelle poesie “Ritratto della mia bambina” e “A mia moglie”. In quest’ultima suonano quasi come uno scherno gli attributi animaleschi rivolti alla donna amata. In verità è un tentativo – spiega Saba- di sublimarla attraverso la realtà di cose minori, piccole, di animali inoffensivi ed umili per questo vicini a Dio. E’ una poesia che sembra essere concepita da un bambino delle elementari, è il tentativo raggiunto dal poeta.

In poesie come “Trieste” oppure “Città vecchia”, Saba ammette il suo populismo e nel farlo ricorda un po’ Pasolini :ambedue ritraggono inoltre fanciulli perché incarnano una vitalità istintiva non ancora cosciente di sé. Ne “La capra” il dolore universale dell’animale ci farebbe quasi venire in mente “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, specie nella chiusa in cui Saba dichiara “la vita è male”. Il frutto del suo antinovecentismo gli impone di seguire infatti antichi retaggi poetici come dichiara esplicitamente in “Amai”.

Secondo me però, è ravvisabile in Montale piuttosto che in Saba o Ungaretti un maggiore pessimismo. E’ la visione catastrofica, è il disinteresse, è la trasformazione dei paesaggi allucinata e sospesa che alimenta un rifiuto. E’ questa sua indifferenza a sembrare boicottaggio, o atteggiamento di difesa. Prendiamo in esame una poesia: “Meriggiare pallido e assorto”:

Chi parla?

L’uso degli incalzanti infiniti ci fa perdere di vista l’interlocutore, forse è la natura a parlare, ad auto contemplarsi, o quasi sicuramente è il poeta che “meriggia” ossia si abbandona oziosamente. Il mare è una chimera irraggiungibile perché l’impedimento è un muro d’orto rovente sulla cui sommità sono conficcati “cocci aguzzi di bottiglia”. Il poeta è imprigionato in un giardino che sembra liquefarsi, sciogliersi , la calura è opprimente, solo le cicale e le formiche cantano e lavorano senza sosta.

Sorvolando sulle stupende “Dora Markus” “Non chiederci la parola” e “Spesso il male di vivere ho incontrato “prendiamo in considerazione “I limoni”, una sorta di poesia proemiale, di incipit in cui è incastonata punto per punto la poetica del Montale. Della sua mancata laurea ne fa una diversità positiva, una posa che lo rende più semplice, più leale rispetto i poeti laureati. Alla difficile nomenclatura botanica di questi egli contrappone i limoni.

E’ una metafora esistenziale, è una natura che ci permette di cogliere la verità, il senso della vita e del mondo. Secondo Marco Forti “I limoni è una chiara disgiunzione dai poeti laureati ,dai gusti aulici, amanti degli effetti oratori ,della tradizione a cui si contrappone un segmentato costrutto colloquiale, un’immobilità silente della gran pittura metafisica di Montale”.

Valeria de Stefano (5 Dicembre 2003)