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Se stasera sono qui, è perché ti voglio bene…è perché tu hai bisogno di me, anche se non lo sai” (Luigi Tenco).

Cari Lettori, è sempre (giustamente) più frequente assistere a dibattiti riguardanti azioni violente verso “l’altra metà del Cielo” (che, in realtà, è molto di più…) con interessanti digressioni sul piano sociologico, filosofico, medico, etc.

Nonostante l’età anagrafica, siamo cresciuti in un ambiente dove, grazie all’esempio, ci è stata spiegata l’importanza di andare oltre steccati e pregiudizi e, per questo, da sempre, abbiamo trovato normale e naturale considerare Donna e Uomo completamente paritetici, valutando inappropriato il riferimento al Pater Familias come “capo della Casa”.

Come un tuono che caratterizza la peggiore delle tempeste, molte (troppe) donne subiscono, dai figli delle donne, il crimine più grande: quello di non essere riconosciute, rispettate e venerate come l’Origine da cui tutto ha preso vita e forma.

Per questo, sconfortati, ci si chiede: “Perché?”

La risposta non è agevole e rinvia ai massimi problemi del mondo.

Nel corso dei millenni tutto ha portato acqua al mulino della supremazia maschile. Anche la lettura distorta della Bibbia, con la conseguente affermazione che, essendo Eva nata da una costola di Adamo, la donna sarebbe una specie di derivazione maschile.

Potremmo sorridere se, purtroppo, dietro queste credenze non vi fossero paura, senso di umiliazione e di impotenza mista a delusione che scuote, “dalla pelle al cuore”, chi dovrebbe essere osservata e venerata per come si conviene.

E allora, da curiosi dell’essere umano, avvertiamo un forte bisogno di porci dalla parte dell’uomo della strada che, elementarmente, prova a capire le origini e le motivazioni di tanto astio (potenziale) verso la figura femminile.

Senza la pretesa di sostituirci ai grandi esperti della materia.

Abbiamo riflettuto sul fatto che, uno dei principali problemi che ci attanagliano, da che Mondo è Mondo, riguarda il conflitto che nasce ogniqualvolta un nostro interesse corre il rischio di essere minacciato. E, siccome impariamo ad amare ciò che consideriamo nostro, ecco che, la sfera di maggiore sofferenza, diviene l’ambito affettivo.

Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare: il giorno, volevo qualcuno da incontrare; la notte, volevo qualcuno da sognare…” (Luigi Tenco).

Molte specie viventi soprattutto fra i mammiferi e, ovviamente, fra coloro che si definiscono “persone”, creano dissidi violenti, quando vedono disturbati i rapporti affettivi con l’elemento (o la persona) di riferimento. Il complesso di Edipo o di Elettra e la competizione senza esclusione di colpi per l’oggetto del desiderio, sono solo alcune delle possibili variabili.

Quando sarò capace d’amare, probabilmente non avrò bisogno, di assassinare in segreto mio padre né di far l’amore con mia madre in sogno” (G. Gaber).

Per esempio, nella lingua Italiana, per femminicidio, intendiamo: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente, sulle donne, in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.

Come spiegato anche su Wikipedia, il termine in questione connota un neologismo che identifica i casi di omicidio (doloso o preterintenzionale) in cui, una donna, viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere.

Gli studiosi più attenti affermano che il femminicidio è un vero e proprio atto di razzismo.

Massimo Recalcati offre, al riguardo, considerazioni di grande chiarezza ed acutezza.

La donna è, per l’uomo, il “luogo” della differenza, come l’ebreo, il diverso.

Per questo, l’uomo vorrebbe omologare la donna, imponendo modi di fare e di agire tesi soprattutto ad uccidere la possibilità dell’autonomia e della libertà.

A questo punto ci tornano in mente le scene familiari in cui, i bambini, arrivano a ridurre in schiavitù la propria madre, in nome dell’Amore. E, ogni volta che il proprio genitore cerca di recuperare un minimo di autonomia “di respiro”, la reazione del “pargolo” è particolarmente astiosa.

Questo, gli esperti, lo chiamano “Egocentrismo”. Quella condizione di immaturità, cioè, in cui si schiavizzano gli altri, con la piena convinzione di aver ragione.

Quando sarò capace d’amare, con la mia donna non avrò nemmeno, la prepotenza e la fragilità, di un uomo bambino” (G. Gaber)

Femminicidio: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale…”

Ma come può, il “meno”, comprendere il “più”?

Ciascuno di noi, infatti (fecondazione assistita a parte), viene concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente (quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna) può essere definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione elettromagnetica, all’aria, al cibo…) per far si che, cellule a forma di mora, diventino un bambino!

Carl Gustav Jung aveva intuito, ai suoi tempi. che l’evoluzione (nell’arco di tempo compreso dal Big Bang per oltre 15 miliardi di anni, fino ai giorni nostri) degli elementi fondamentali dell’Universo (l’Energia vitale sotto forma di gas, polvere di stelle, etc. governata e “istruita” da elettromagnetismo, gravitazione, interazione forte e debole) era stata condensata nel nostro DNA.

Questo filamento a doppia elica che dà vita ai cromosomi deve essere inteso, quindi, come un enorme deposito di informazioni che si sono modificate in milioni di anni per consentirci di apparire sotto forma umana, in grado di funzionare, per ciò che è indispensabile (duplicazione cellulare, metabolismo, impulsi nervosi, “istinti pulsionali”) a prescindere da modelli educativi impartiti.

In pratica è come se, Madre Natura, avesse plasmato (dai primi batteri fino alle forme di vita più evolute) le trasformazioni necessarie a dar luogo ai “complessi” e “articolati” Esseri Umani i quali, alla stregua di un Computer appena comprato, sono in grado di funzionare (per le elementari ma fondamentali operazioni inconsapevoli) grazie ad un sistema operativo installato dal costruttore che verrà, in seguito, arricchito di programmi dall’ambiente (Famiglia, Scuola, Società in generale) capaci di attivare la nostra capacità di contestualizzarci in maniera consapevole.

L’ARCHETIPO, dunque, è il sistema operativo capace di “guidare” il nostro sviluppo embrionale intrauterino (in pratica quando da una cellula indifferenziata, lo zigote, un po’ alla volta diventiamo piccoli esseri umani pronti a venire al mondo).

La moderna psicologia perinatale spiega che, di norma, il momento del parto viene determinato da un inconsapevole accordo fra mamma e bambino, a seguito del quale, entrano in circolo tutti i mediatori chimici che daranno il via al meccanismo dell’espulsione.

Almeno all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori… ma non solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.

Nel prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il potenziale compagno (di vita o del momento).

Ma perchè la mamma è così importante?

Perchè, per ognuno di noi è “casa”; infatti, siamo cresciuti in lei e conosciamo, di lei, anche quello che, a lei, è nascosto (la sua frequenza respiratoria, la peristalsi intestinale, gli equilibri idroelettrolitici del liquido amniotico, i rilasci ormonali…. la sua vita più intima, insomma, proprio dal di “dentro”). Ecco perchè, alla nascita, noi cerchiamo quella “cosa” che ci ricorda la “casa”.

Moderni studi di psicobiogenetica delle cure maternali, hanno dimostrato l’assunto della “memoria implicita delle esperienze” (di D. Winnicot ) per cui si è arrivati a comprendere che, quando la “casa” (in questo caso, le attenzioni materne fin dai primi istanti della nostra venuta al mondo) è troppo accogliente o troppo poco accogliente, ci sentiamo oppressi o abbandonati.

Per essere aiutati a “crescere”, una mamma “sufficientemente buona” dovrebbe, prima far credere al bambino di avere un potere immenso su tutto e, dai due/tre anni di vita in poi, “disilluderlo” aiutandolo ad accettare il fatto che, senza impegno, non otterremo alcun risultato.

In funzione di quanto abbiamo percepito e accettato l’idea che la mamma non è proprietà esclusiva e che, anzi, un elemento esterno a noi (costanza dell’oggetto), l’angoscia che ne consegue, la scarichiamo addosso a lei e alle figure femminili di riferimento (psicologicamente o fisicamente) oppure ce la teniamo dentro, nell’attesa di una Donna adeguatamente “responsiva”, in grado di ricordarci la rêverie materna

Ogni volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più usata è “Oh, Madre mia!”

Vero è altresì (almeno sotto forma di ipotesi scientifica) come sostiene Massimo Recalcati, che personaggi del calibro di Lacan, Melanie Klein, hanno descritto in maniera inquietante il desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. 

In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dall’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno.

L’ipotesi è che nell’inconscio di ogni madre (anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli) risieda una spinta indomita a fagocitarli.

Se stasera sono qui, è perché so perdonare e non voglio gettar via così il mio amore per te. Per me, venire qui, è stato come scalare la montagna più alta del mondo…” (Luigi Tenco)

Probabilmente (come affermato anche in altri scritti) possiamo, da figli, considerarci come degli alianti in attesa del distacco dall’aereo madre che ci ha portato lì, dove ci giocheremo vita e destino con le correnti ascensionali…

Ma, se questo distacco non arriva, da una parte vincerà la frustrazione del sentirsi un fallito, dall’altra, il dolore verrà lenito dal vantaggio secondario che deriva dalla convinzione ( e presunzione) che avremo qualcuna sempre al nostro servizio.

Mi sono innamorato di te, perché non potevo più stare solo. Il giorno, volevo parlare dei miei sogni; la notte, parlare d’amore. Mi sono innamorato di te e, adesso, non so neppure io cosa fare: il giorno, mi pento d’averti incontrato; la notte, ti vengo a cercare. (Luigi Tenco)

Il problema è che, a queste condizioni, anche con il nostro compagno di vita, continueremo ad avere queste pretese, frutto, di una mancata, adeguata, maturazione.

Ovviamente, non si pretende in alcun modo di colpevolizzare la figura femminile; si cercano solo, delle spiegazioni.

In aggiunta a quanto espresso finora, potremmo porre sul piatto delle riflessione, il fatto che, di norma, più ti leghi, più crei delle aspettative, derogando dalle quali, la cosa non la prendi bene. Vale, per qualsiasi rapporto affettivo ed è inversamente proporzionale al grado di sviluppo della propria identità.

Ancora oggi, infatti, è lo spirito di creatività che il maschio non accetta. La donna, per l’uomo rudemente maschilista, non può avere vita autonoma, pensieri liberi. Ella più che persona finisce per essere “cosa”, oggetto che l’uomo vorrebbe far muovere a suo piacimento.

Ma la donna non è oggetto.

Anzi con l’emancipazione e l’autonomia finanziaria, si sente giustamente in grado di “pensare con la propria testa” e “Signora” della propria vita prendendo le distanze da qualsiasi prepotenza. Costi quel che costi

L’aumento dei casi di violenza è legato proprio al fatto che mai come in questa epoca la donna ha trovato oggettivamente la forza per difendere e tutelare il suo spazio vitale.

Tale è la durezza dei nostri decenni che, anche in attentati con gran numero di vittime, la donna finisce con l’essere affranta da un dolore in più, che turba e offende la nostra dignità di esseri umani.

C’è una tremenda poesia di Andrea Zanzotto, intitolata “Il nome di Maria Fresu” che ci annichilisce al riguardo.

Maria Fresu è rimasta letteralmente polverizzata dalla bomba alla stazione di Bologna, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente stata tra le vittime. Ridotta unicamente al suo nome:

E il nome di Maria Fresu continua a scoppiare, all’ora dei pranzi, in ogni casseruola, in ogni pentola, in ogni boccone: in ogni rutto, scoppiato e disseminato, in milioni di dimenticanze, di comi, bburp!

Il maschio che esercita violenza sulla donna, infatti, non solo la uccide ma la sevizia. Ne fa a pezzi il corpo e poi lo brucia nel folle tentativo di cancellare una esistenza in tutta la sua totalità.

Dobbiamo tutti cambiare in meglio i nostri comportamenti. Molti di noi, per fortuna, sono distanti da questi atteggiamenti criminosi e bestiali. Ma non basta. Possiamo e dobbiamo fare sempre di più per far sì che la nostra sensibilità venga educata dalla sensibilità femminile e ne sia degna.

La sensibilità femminile ha tali profonde delicatezze che frequentandola, anche solo in poesia, ne trarremo effetti salutari e di benefica civiltà. Unico modo per sconfiggere il barbarico e il ferino che, in diversa percentualità, alberga in ognuno di noi.

Una poetessa contemporanea, Annalisa Saccà, in una poesia intitolata Mio tanto amore amato” ci regala versi di grande finezza e sensibilità

(…) Raccogli pieni i doni dell’invito e, in un cesto, portami virgole e punti in abbondanza ch’io possa rompere, sul foglio, il mio respiro e voci tronche e sdrucciole e un pronome che possa nominarti mentre scrivo. (….)

Le donne, nonostante le violenze subite, di tipo non solo fisico ma anche psicologico, ci hanno sempre lasciato messaggi ed esempi di dolcezza e d’amore.

Pensiamo per fare un solo eccelso riferimento, a Emily Dickinson che scrisse poesie stupende, senza mai pubblicarle ma credendo in esse.

La sorella, dopo la morte, ne trovò 1775, riposte nello scrittoio e in “una cassetta di legno di ciliegio”. Ordinate dalla poetessa in fascicoli cuciti a mano: esse con tranquilla fermezza erano destinate a noi posteri.

Qualche verso per iniziare o affinare la nostra “educazione”:

Se non avessi visto il sole, avrei potuto accettar l’ombra. Ma la luce rendeva più deserto il mio deserto.

E ancora:

Vi fu, tra noi, la distanza che non si conta a miglia o continenti, determinata dalla volontà e non dall’Equatore.

Cari Lettori, con queste brevi riflessioni non si è inteso vergare alcuna verità dogmatica. Né, tanto meno, si è cercato di giustificare in alcun modo, qualsiasi manifestazione aggressiva e offensiva.

Però, se è vero che, quanto più l’uomo vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanta più forza le sue radici tendono verso le tenebre, è altrettanto vero che, quello che spaventa non è solo la violenza dei cattivi ma anche e soprattutto l’indifferenza dei buoni.

Quindi, come premesso all’inizio, si è tentato di gettare un occhio in questa particolare dinamica, quella dell’attaccamento affettivo (e delle relazioni oggettuali), che è, al tempo stesso, croce e delizia arrivando, in conclusione di questa passeggiata (forse su un terreno un po’ scosceso) ad invitarvi a condividere il bellissimo panorama offerto dal video che mostra degli uomini, in religioso silenzio, ascoltare un altro uomo che, giunto al termine del suo viaggio terreno, lascia un bellissimo testamento spirituale…

QUANDO SARO’ CAPACE DI AMARE

Quando sarò capace di amare
Probabilmente non avrò bisogno
Di assassinare in segreto mio padre
Né di far l’amore con mia madre in sogno

Quando sarò capace di amare
Con la mia donna non avrò nemmeno
La prepotenza e la fragilità
Di un uomo bambino

Quando sarò capace di amare
Vorrò una donna che ci sia davvero
Che non affolli la mia esistenza
Ma non mi stia lontana neanche col pensiero

Vorrò una donna che se io accarezzo
Una poltrona, un libro o una rosa
Lei avrebbe voglia di essere solo
Quella cosa

Quando sarò capace di amare
Vorrò una donna che non cambi mai
Ma dalle grandi alle piccole cose
Tutto avrà un senso perché esiste lei

Potrò guardare dentro al suo cuore
E avvicinarmi al suo mistero
Non come quando io ragiono
Ma come quando respiro

Quando sarò capace di amare
Farò l’amore come mi viene
Senza la smania di dimostrare
Senza chiedere mai se siamo stati bene

E nel silenzio delle notti
Con gli occhi stanchi e l’animo gioioso
Percepire che anche il sonno è vita
E non riposo

Quando sarò capace di amare
Mi piacerebbe un amore
Che non avesse alcun appuntamento
Col dovere

Un amore senza sensi di colpa
Senza alcun rimorso
Egoista, naturale come un fiume
Che fa il suo corso

Senza cattive o buone azioni
Senza altre strane deviazioni
Che se anche il fiume le potesse avere
Andrebbe sempre al mare

Così vorrei amare

Cari Lettori, in fondo, come simbolicamente espresso dalla particolare immagine di copertina, il nostro DNA è la tastiera di quel pianoforte che si ispira a Dio (o a chi per Lui). È il nostro cuore, però, che aiutato dall’intimità dell’inconscio, che potrà estrapolarne le più belle armonie.

BUONA VITA A TUTTI

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per i molti spunti di riflessione proposti

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