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“Sono nato a una nuova vita ogni volta che una mia sovrastruttura mentale fatta di pregiudizi, di insegnamenti obsoleti e di credenze accettate acriticamente, si è spezzata e, io, ne sono uscito liberato come da una prigione.

Sono nato a una nuova vita ogni volta che, osservando il Mondo da insospettati punti di vista, la mia mente si è allargata a nuove comprensioni.

Sono nato a nuove vite, quando ho smesso di  razionalizzare, ho ascoltato la mia intuizione e mi sono aperto al mistero…” (Federico Faggin – Fisico, inventore del microprocessore)

Cari Lettori, in questa Società dove ogni cosa è “spettacolarizzata” in maniera da non consentirci più di capire dove termina la fantasia e inizia la realtà e nella quale tutto viene vissuto come l’alimentazione di un bulimico il quale, purtroppo, non riesce ad assaporare nulla di quello di cui si nutre, finiamo col celebrare eventi e ricorrenze senza consapevolizzarne i motivi e “percorrendo” giorni sempre uguali nell’angosciosa attesa della fine di tutto.

La Festa del lavoro (o, meglio, dei lavoratori) nasce a Parigi il 20 luglio del 1889 come idea lanciata durante il congresso della Seconda Internazionale (indetta dai partiti socialisti e laburisti europei).

La scelta della data non è casuale: il 1° maggio del 1886, una manifestazione operaia a Chicago era stata repressa nel sangue. A metà del 1800, infatti, l’orario di impegno (meglio dire “sfruttamento”) lavorativo era mediamente di 16 ore al giorno e senza il riconoscimento dei più elementari diritti.

Questa iniziativa diviene, di fatto, il simbolo delle rivendicazioni operaie e, ancora oggi, la data del Primo Maggio, in molti Paesi (compresi Cuba, Russia, Cina, Messico, Brasile, Turchia e i Paesi dell’Unione europea) è considerata festa nazionale. Curiosamente non lo è, invece, negli Stati Uniti dove preferiscono festeggiare (sempre il primo maggio) il “giorno della lealtà”. In Italia tale ricorrenza, abolita dal fascismo nel 1923, è stata rispristinata nel 1947.

L’opera pittorica che in modo emblematico ricorda e testimonia tutto ciò è un dipinto olio su tela del pittore italiano Giuseppe Pellizza da Volpedo e intitolato “Il Quarto Stato” (così chiamata per identificare operai, contadini e proletariato in genere: il Quarto Stato, in contrapposizione col “Terzo Stato” della Borghesia)

Questo quadro (grande tre metri per cinque) realizzato dal 1898 al 1901 è conservato nel Museo del Novecento di Milano dal 1920. Il dipinto fu acquistato all’epoca attraverso una sottoscrizione popolare senza precedenti perché ritenuto di altissimo significato sociale.

Il Quarto Stato è il simbolo di un periodo lavorativo che, di fatto, non esiste più dal momento che, la Società attuale, tenta (con costi della vita sempre più alti) di appiattire anche la cosiddetta media borghesia creando, di fatto, due blocchi contrapposti: quello dei sempre più ricchi e quello del resto della popolazione. Senza cuscinetti intermedi.

Un nuovo medioevo, insomma, il quale richiede un profondo ripensamento dei Sindacati e della difesa di un Lavoro che tende, nuovamente, a perdere caratteristiche di dignità.

Basti pensare alle difficili condizioni in cui sono costretti a operare figure professionali di ogni genere (dagli impiegati delle multinazionali ai docenti di scuole sempre più “aziende”, dai medici di ospedali fatiscenti agli operai che muoiono ogni giorno di “cattivo lavoro”…)

Lo psicoanalista Massimo Recalcati ha spiegato che, secondo Freud e Lacan, l’essere umano manca di un programma istintuale capace di orientare la sua esistenza nel Mondo. E proprio su questo “difetto” che, sempre secondo il pensiero di questi “grandi” della Psicoanalisi, prende corpo il programma dell’Inconscio.

Proviamo a capire

Al contrario di forme apparentemente meno evolute, non accettiamo passivamente l’idea che, il senso della nostra presenza sia, appunto, la nostra stessa presenza. Abbiamo bisogno di capire che lo scorrere dei granelli di sabbia nella clessidra che misura quanto ci resta, del variegato coacervo di stati d’animo, sia finalizzato al sentirsi delle “brave persone” (se si è cresciuti coi Valori di una volta) o al raggiungimento della possibilità di godere.

Entrambe queste posizioni, rispettano il motivo che guida il cammino di ognuno: il Principio del Piacere.

Tale “chimera” genera la nostra condanna alla vita, intesa come scontro fra due estremi apparentemente inconciliabili: Eros (Amore e passione) e Thanatos (Morte).

Al primo, Sigmund Freud dava la valenza di pulsione volta alla conservazione della vita; nella seconda, individuava la pulsione che spinge verso la distruzione della vita stessa.

“Ognuno sta solo sul cuor della Terra trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo).

Cari Lettori è chiaro che, essendo ancora molto lontani da quella maturità capace di governare queste pericolose forze interiori che ci “governano”, il rischio di vedere  burattinai che pretendono di “animare” a piacimento un mondo di burattini è sempre più incalzante.

“L’aria oggi puzza di uova marce, è infetta di tetraetile, idrocarburi, catrami. Ho raccolto dal cemento, ora, un minuscolo uccello rosso grigio tutto tremante: ha gli occhi quasi chiusi e il becco pieno di schiuma verdastra. Forse ha mangiato qualche granulo di zolfo, forse qualche altro veleno terribile …. ” (Ferruccio Brugnaro, poeta operaio)

In una recente intervista, lo psichiatra Otto Kernberg ha spiegato che il miglior modo di “onorare” la vita, resta quello di Amare e Lavorare per riuscire a identificare e sviluppare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente in modo sostenibile e adattarvisi migliorando le capacità di “coping”

Chissà cosa accadrebbe se riuscissimo a incontrare i bambini che eravamo e chiedere loro un parere sugli adulti che, poi, siamo diventati…

Probabilmente scopriremmo di aver impattato col prezzo della vita, quell’insieme di istanti che “vanno a senso unico” colorando e dando un peso a quel misuratore indifferente che è il tempo, creandoci l’illusione di essere in quella condizione di fare ciò che piace e che fa star bene: la libertà.

Ma siamo realmente liberi nel decidere i nostri percorsi di vita?

In linea di massima, la risposta potrebbe essere affermativa nel senso che basterebbe poter scegliere ciò che più piace e verso cui ci sentiamo più “legati”. Nella realtà dei fatti, qualunque attività decidiamo di intraprendere, dovremo sopportare dei costi pur traendone dei vantaggi.

Quali potrebbero essere questi costi?

Innanzitutto il tempo da dedicare per prepararci ad affrontare una determinata professione; poi, le difficoltà da affrontare per inserirsi in un circuito lavorativo dignitoso; inoltre, c’è da considerare le frustrazioni con cui, inevitabilmente, ci si scontra durante un percorso occupazionale; infine, non si può trascurare la necessità di sapersi barcamenare tra il tempo da dedicare al lavoro e quello da utilizzare per dare alla propria vita una dimensione di completezza ed equilibrio (affetti, amicizie, tempo libero, miglioramento personale, etc.)

Nel rapporto fra fatica (costo) e gusto (beneficio) ci muoveremo, come Diogene con la lanterna a cercare l’uomo, in tutti i suoi significati.

La sconfitta, in questa ricerca, porterebbe a sperimentare nuove sfaccettature di quella angoscia interiore abitata da antichi demoni

A tal proposito, Italo Calvino ha spiegato che, a suo modo di vedere le cose, vi sono due modi per non soffrire l’inferno.

“Il primo riesce facile a molti: accettarlo e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.  Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, per farlo durare e dargli spazio”

Cari Lettori, probabilmente la nostra esistenza ricalca la guida di un aereo: diventa prioritario restare ai comandi qualunque cosa accada. Il problema nasce nel momento in cui la situazione ci sfugge di mano per aver commesso errori nella strategia di conduzione delle cose che facciamo. A quel punto, l’aereo (cioè la nostra vita) può “piombarci addosso” come una mina vagante.

L’importante è evitare lo stallo.

Lo stallo è quel momento in cui un velivolo non ha più spinta inerziale per cui comincia a precipitare. La bravura del pilota consiste nel riuscire a volare manovrando la cloche in maniera da raggiungere l’equilibrio fra la spinta dei motori e la durata dell’accelerazione, restando all’interno di una curva disegnata fra la “salita” e la “discesa” evitando, nel contempo, di finire fuori rotta.

Con l’accelerazione di nuove tecnologie, oggi si pongono scenari diversi che bisogna seguire con grande attenzione e lucidità.

Con l’avvento di Internet e dei suoi “derivati” (smart working, metaverso, etc.) il concetto di “lavoro” va completamente reimmaginato.

Nel difficile “post Covid” e in mezzo a scenari sempre più frequenti  di guerre insensate il cui vero obiettivo è quello della conquista di pezzetti “sabbia” contenenti “terre rare” (silicio, litio e simili), ci troviamo a un crocevia in cui quell’impiego razionale dei beni e dei mezzi a disposizione per soddisfare i vari bisogni evitando sprechi, che si chiama Economia, richiede l’attivazione di gruppi di lavoro condiviso deputati a intervenire nella “gestione per eccezioni”, per problemi che nessun sistema automatizzato sarebbe in grado di affrontare.

La Formazione e la Scuola dovranno, per forza di cose, avere ruoli e competenze sempre di maggior peso e responsabilità.

La Scuola del futuro dovrebbe sempre più attrezzarsi per educare al bello in tutte le sue valenze in modo che ognuno potrà poi, al di fuori del periodo lavorativo, dedicare il tempo libero ad arricchire la sua umanità. Per essere sempre più umano in un mondo pieno di macchine e di necessaria e utile tecnologia.

“Il pettirosso prova le sue ali. Non conosce la via ma si mette in viaggio verso una primavera di cui ha udito parlare” (Emily Dickinson)

Se si vuole emergere dal cratere nel quale siamo finiti (e del quale, ancora, non conosciamo il fondo) è necessario accettare l’idea che, NESSUNO, è più importante dell’ALTRO ma che, CIASCUNO, opera in ambiti di pertinenza nei quali non è succube di NESSUNO.

Utilizzando una simbologia musicale (già proposta in un altro editoriale), si può associare il modello tradizionale di lavoro ad una banda di robot che suonano “marcette”.

La dura realtà della nuova reality economy richiede, invece, un modello originale di orchestra jazz in cui ognuno porta avanti il suo progetto, con un direttore in grado di coordinare i vari solisti che si esprimono, mediante work songs (canti di lavoro), spirituals (inni religiosi) e blues (“richiami” di protesta sociale), nella creazione di melodie più o meno svincolate dai temi d’insieme, irripetibili fuori dall’istante della loro esecuzione.

In futuro (man mano che le nuove generazioni guadagneranno la “prima linea”, consentendo ai “veterani” il meritato riposo)con l’impegno collettivo in cui emergeranno le competenze embrionarie di TUTTI, la next economy dovrebbe poter vedere piattaforme operative delineate sul modello del Quartetto d’archi, capace di comunicare armonie attraverso l’ausilio di virtuosismi strumentali in grado di trasmettere sensazioni intersecanti le calde emozioni del passato con la vitalità spumeggiante della vita contemporanea.

D’altronde, questo tipo di formazione musicale (privilegiato dai compositori musicali, a partire dalla metà del settecento) rappresenta, di fatto, non un semplice aggregato di musicisti ma “un insieme omogeneo ed integrato che determina una conversazione tra quattro persone ragionevoli” ( Goethe) il cui obiettivo è quello di conciliare la dimensione sinfonica con quella solistica

“Il fallimento di una relazione, è quasi sempre un fallimento di comunicazione” (Zygmunt Bauman)

La forza del gruppo, infatti, consiste nella capacità di riassumere i colori principali della tavolozza orchestrale mantenendo, ogni strumentista, l’indipendenza e l’autorevolezza di un solista (con il “direttore incorporato”).

Cari Lettori, è un dato di fatto che in questo inizio di ventunesimo secolo si stiano susseguendo notizie che inducono a spegnere speranze e aspettative.

Secondo noi, c’è ancora la possibilità di una nuova alba, simboleggiata dalla suggestiva immagine di copertina e nel bellissimo brano riportato di seguito.

“Zio, dai, raccontami un’altra storia di Fiocco Rosso…”

“E va bene. Dunque, devi sapere che una volta, il cardellino Fiocco Rosso capitò su un’isola bellissima…”

“Era Ischia?”

“No, era un’isola abitata da soli uccelli, dove si viveva molto bene perché c’era da mangiare in abbondanza e perché non c’erano cacciatori. L’unica cosa che non si poteva fare era andarsene via. La regina dell’isola era una grande aquila reale che aveva al suo servizio cento falchi. Questi falchi montavano la guardia, giorno e notte, appollaiati su montagne altissime e, ogni volta che qualche uccello cercava di scappare, gli piombavano addosso…”

“Ma perché gli uccelli volevano scappare se c’era da mangiare in abbondanza?”

“Perché nella vita il mangiare non è tutto e qualche volta si sente anche il bisogno di volarsene via. Comunque un giorno gli uccelli dell’isola decisero di ribellarsi e, insieme, rovesciarono la tirannia”.

“E allora, l’isola divenne ancora più bella?”

“Si, per un po’ di tempo ci fu una certa serenità: i corvi avevano fondato la Repubblica degli Uccelli e tutti erano contenti che non ci fosse più un solo uccello a comandare sugli altri.”

“E Fiocco Rosso?”

“Fiocco Rosso rimase in quell’isola ancora per un anno, poi decise di andar via… sennonché, ogni volta che cercava di allontanarsi, c’era sempre qualcuno che lo convinceva a sacrificarsi per il BENE COLLETTIVO ed a rimandare la partenza. Fiocco Rosso, allora, si accorse che anche dalla Repubblica degli Uccelli, non era possibile andarsene via. Si, qualche uccellino aveva cercato di farlo, ma poi, ad un chilometro dalla spiaggia, una voce misteriosa lo aveva convinto a tornare indietro. Una notte, Fiocco Rosso, ascoltò i corvi riuniti in assemblea segreta e si accorse che questi ultimi, avevano costruito intorno all’isola, una gabbia tutta fatta di parole. Quando un uccello si avvicinava alle sbarre, le parole più vicine diventavano udibili e lo dissuadevano dal volare via.”

“E quindi non c’era speranza di libertà?”

“Solo in un punto, i corvi non erano riusciti ad intrecciare fra loro due parole difficili. Per trovare questo punto e scappare, era necessario volare la mattina presto, quando il sole era ancora basso sull’orizzonte. E così Fiocco Rosso, il giorno dopo, all’alba, si mise a volare nella direzione del sole e qui, tra le parole LIBERTA’ e FANTASIA, riuscì a trovare un piccolo buco ed a scappare.”

“Seduta per terra davanti alla porta chiusa a chiave della stanza di zio Luca CARDELLINO, c’era Chicca, in attesa di potere entrare. Elisabetta fu la prima a varcare la soglia e subito si accorse che Luca non c’era più. La finestra aperta… il lucchetto forzato. Tutti i grandi si precipitarono alla finestra per guardare giù in strada. Solo Chicca, alzando lo sguardo vero il cielo, ebbe l’impressione di vedere un uccello volare lentamente nella direzione del sole.” ( da “Zio Cardellino” – Luciano de Crescenzo – Mondadori ed.)

Cari Lettori, a dispetto di ogni Pandemia e di ogni stupida Guerra, l’auspicio è quello di ritrovarci, tutti, in una specie di Isola che non c’è, dove il recupero di antichi valori e la ricerca di una modernità “spinta” all’estremo si amalgamino, con sapiente velocità, verso quell’INFINITO “PRESENTE” dove le rette si convergono in un punto.  Quello da cui tutto è partito.

Per poter, finalmente, ricominciare.

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per avere suggerito molti degli interessanti aforismi inseriti nell’articolo.

Un suggerimento: provate a rileggere l’articolo ascoltando, in sottofondo la bella colonna sonora composta da Ennio Morricone per il dramma storico “Novecento”, diretto (con un cast internazionale) da  Bernardo Bertolucci nel 1976, che racconta le vite e l’amicizia del possidente terriero Alfredo Berlinghieri e del contadino Olmo Dalcò, due uomini nati nello stesso giorno e nello stesso luogo ma dotati di personalità e condizioni sociali opposte, sullo sfondo dei conflitti sociali e politici che ebbero luogo in Italia nella prima metà del ventesimo secolo.

Il dipinto che fa da sfondo ai titoli di testa di questa grande film (selezionato fra i cento film italiani da salvare) è l’opera di Giuseppe Panizza da Volpedo “Quarto Stato”

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