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Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. Morire è nulla; perderti è difficile. (Umberto Saba)

“La verità è che, nonostante siamo inseriti ed attinti dal ciclo vitale e dalla sua fine, in un circuito che non si ferma mai, pochi sono pronti ad accettare la cessazione della vita.. di chiunque e con chiunque si è creato un legame…”

Buongiorno Mariella, è vero. Ci pesa in maniera direttamente proporzionale a quanto ci pesa l’angoscia dell’abbandono che ci portiamo fin da piccoli. Non siamo mai veramente pronti a “lasciare andare”. Forse siamo più capaci a “lasciarci andare”

Cari Lettori non è mai facile chiudere la porta di quel pezzo di cuore conquistato dall’amore di chi, per (a volte incomprensibile) Legge di Natura, deve continuare il viaggio. Ma senza di noi.

Eppure, se ci domandassero “Come va?”

Noi risponderemmo: “Bene, come sempre.”

Si, perché, pur adusi a esprimere contenuti emotivi, a volte, sofferenti, abbiamo chiaro che il termine “bene” deriva dal latino e sta ad indicare qualcosa su cui si è  riflettuto a lungo.

Gli antichi romani si erano resi conto dal fatto che, a volte, ciò che è che è buono, giusto, in senso etico e morale, generava scombussolamenti derivanti dalla necessità di rimettere in discussione quello che si era ritenuto essere consone al proprio modo di essere.

Questo comportava un periodo di sofferenza critica, in conseguenza della quale, si raggiungeva uno stato “ricreativo” migliore del precedente. A tutto ciò, essi, davano il nome di “bene” come cosa giusta e opportuna, eticamente ineccepibile.

Una volta stabilito che una cosa debba essere portata avanti, un uomo ha il dovere di agire di conseguenza, quale che sia il prezzo da pagare! (John Fitzgerald Kennedy)

A tutti sarà capitato di trovarsi di fronte a bivi esistenziali che richiedevano un “cambio di passo” caratteriale.

Ebbene, pur consapevoli della necessità della scelta, nessuno è rimasto immune da scombussolamento e tristezza.

Gli esperti ci spiegano che, ciò, sia dovuto alla sensazione di perdere una parte di sé, col rischio di non riconoscersi più.

Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più. (MASSIMO GRAMELLINI)

Già. Ma come la mettiamo col senso di “abbandono” e con la tristezza della nostra amica Mariella?

Tra l’altro, è questo il periodo in cui maggiormente ci troviamo a riflettere sulla vita e sulla morte, sperando di far prevalere le ragioni della vita, intesa, però, nella sua autenticità.

La perdita di una persona cara è un momento sconvolgente nella vita di ognuno.

Il lutto attraversa varie fasi, almeno quattro: lo stordimento, lo struggimento, la disperazione e disorganizzazione, la riorganizzazione.

L’iter ha un andamento lungo e la durata non è uguale per tutti.

Parecchi si fermano in qualche fase intermedia e per il resto dei loro giorni “si lasciano vivere” senza riprendere realmente a vivere.

Come ci ricorda Massimo Recalcati, invece, in una elaborazione naturale del lutto, la tristezza si deve trasformare gradualmente in gratitudine.

Essendo l’uomo mortale, ne deriva che, nolenti o volenti, la morte ci accompagna sempre.

Per Freud, tutta la vita è determinata da continui lutti, nel senso che ogni cambiamento nostro è una frattura con la fase vitale precedente. La morte, ci dice, è il lutto finale perché sancisce una situazione definitiva.

E la sepoltura è momento basilare perché, come si insegna Lacan, “la sepoltura rende umana la vita”.

L’argomento è molto importante e oggetto di riflessione e di studi da parte di studiosi di alto livello.

In questa sede, amiamo fare qualche considerazione tenendo presente Massimo Recalcati quando, guardando il cielo notturno, registra “la luce delle stelle morte”.

Noi vediamo la luce di stelle che arriva a noi dopo tanto tempo e nel momento in cui grati guardiamo le stelle esse in realtà sono “morte” da tempo.

Noi dobbiamo far così. Attraversare le varie fasi del lutto (che presuppongono “dolore”) e poi registrare che coloro che non ci sono più sono in realtà presenti dentro di noi e ci scaldano, come le stelle, anche quando di fatto non ci sono più.

La caratteristica del genere umano è la parola che serve per tutte le occasioni. Essa, ben calibrata, è medicina davanti ai grandi dolori.

Siamo fatti, dunque, di parole.

In particolare delle parole degli altri. Sono le parole che ci hanno costruito e pe,r questo noi siamo fatti (anche e soprattutto) degli incontri che abbiamo fatto e che hanno modificato la nostra esistenza. Siamo, ci ricorda Recalcati, fatti anche dei nostri innumerevoli forti cambiamenti. Ogni volta “muoiamo” per rinascere tante e tante volte.

Roland Barthes conclude alcune sue pagine assai intense sulla morte della madre, cui era attaccatissimo, con la desolata constatazione che “lei non è più qui”.

Chi resta vive il grande trauma. Non solo il caro non ritorna più ma “nessuno più ci attende a casa”.

Dicevamo che dinanzi al lutto non solo i tempi sono diversi per ognuno ma anche le risposte sono di vario tipo.

C’è la risposta melanconica. Il soggetto è come pietrificato, la vita si oscura, ha sensi di colpa e per lui il tempo perde l’avvenire.

Non riesce ad elaborare la perdita. Il soggetto perduto è presente nell’assenza.

C’è, poi, la reazione maniacale. Si sostituisce l’oggetto assente con un altro. É un po’ il nostro tempo che, frettoloso e superficiale, vorrebbe velocemente sostituire l’insostituibile.

Questi due modi di agire sono un po’ due facce della stessa medaglia.

Impaniati nel loro dramma esistenziale, non possono, arricchiti, venirne fuori.

C’è un’altra strada, l’unica che dovremmo percorrere. È quella che Freud chiama “lutto come lavoro”. Ci vuole tempo.

Il tempo lungo del pensiero perché ci deve essere memoria. E la memoria recupera ma a fatica, con lentezza e, purtroppo, dolore.

Ma perché dobbiamo attraversare questa fase con tanto sacrificio e sofferenza? Per arrivare dove? Perché?

Dobbiamo macerare il dolore dentro perché dobbiamo liberarci del peso della perdita che ci schiaccia e ci opprime.

Come il vento rigenerante di primavera, finiremo col sentirci alleggeriti.

La libido del soggetto che si era trasferita sull’oggetto ritorna al soggetto. Quando ci si riappropria della libido si riparte per una nuova fase proficua della vita.

La nostalgia cui dobbiamo tendere è la nostalgia /gratitudine.

Come la luce delle stelle giunge dal passato delle stelle, così il passato legato alle persone care che non ci sono più viene a trovarci, ci illumina. Il passato ci illumina.

Le schegge del tempo in cui siamo stati insieme si conficcano nella nostra memoria in modo energetico e vitale. La polvere del tempo diventa fascio di luce.

Un rapporto profondo tra chi c’è e chi più non c’è.

Resiste la corrispondenza di amorosi sensi.

Il filosofo Jean – Luc Nancy, pensando a quando non sarebbe stato più su questa terra, rivolto agli amici scrisse: portatemi con voi, fatemi vivere ancora.

È vero. Finché dentro di noi porteremo memoria di chi non è più presente, l’assenza non è tale ma diventa presenza interiorizzata. Qualcosa di grande ed arricchente.

René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke, scrittore, poeta e drammaturgo austriaco (nato nel 1875 e morto nel 1926) ci avrebbe risposto in questo modo: “Così noi viviamo, per sempre prendendo congedo!”

Quindi?

Dobbiamo, per un attimo, considerare la nostra realtà fatta di trasformazioni, abbandoni ed evoluzioni. 

Già nella esperienza di “spermatozoo” (simbolicamente) procediamo in un “territorio ostile” (le via genitali femminili) pieno di trabocchetti nei quali è alto il rischio di “morire in azione” e, nella migliore delle ipotesi, riusciamo ad incontrare l’ovulo e a “tuffarci” dentro per morire.

Salvo, poi, rinascere in una dimensione zigotica. 

Da feto sperimentiamo (forse per la prima volta) l’angoscia della “fine del mondo” in prossimità di quell’evento che ci porterà alla luce del mondo esterno, sotto forma di neonato.  

Da bambini (intorno ai 4/5 anni) proveremo stati d’animo angosciosi nel momento in cui capiamo di doverci assoggettare anche a quello che non ci piace ma che, in fondo, non potrebbe essere diverso (angoscia di castrazione), ogni volta che sentiamo il peso di ritrovarci da soli e non siamo preparati ( angoscia abbandonica), allorquando avvertiamo la paura di non potercela fare e ci sentiamo “persi” oltre ogni limite ( angoscia di frammentazione).

In seguito, ogni volta che ci si presenteranno circostanze di cambiamento importanti, dalle quali dedurremo che il mondo non è così bello come avevamo immaginato e sperato da bambini, potremo continuare a scindere “gli altri” come assolutamente buoni e assolutamente cattivi (in una sorta di condizione mentale “schizoparanoide”) oppure accettare che il mondo sia una miscellanea di opportunità e di contingenze in cui non c’è più un “genitore protettore” alle nostre spalle: questa seconda opzione, che aiuta a crescere interiormente, comporta un aumento iniziale di angoscia che supereremo attraverso una posizione temporanea di depressione.

Quale potrebbe essere la giusta posizione mentale da assumere?

Esiste la necessità di imparare a saper rinunciare a qualcuno o a qualcosa in cambio di qualcos’altro che, logicamente, determini una condizione oggettivamente più evoluta e remunerativa, nel rispetto di principi naturali, ovviamente. Non è né bello né brutto. E così che si diventa adulti.

Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro, nel momento dell’abbandono.  (LUIS SEPÚLVEDA)

Non è che, con l’occasione, si diventa anche più “freddi”, sul piano emozionale?

Si diventa più accorti e vicini alle bande di oscillazione emotiva che tendono a zone di equilibrio. Effettivamente, si evitano eccessi del tipo “euforia” e “disperazione”. Una sorta di stabilizzazione del tono dell’umore.

Esiste il rischio di diventare un po’ meno umani?

Al contrario. Umano, è un termine che funge sia da sostantivo che da aggettivo e connota sentimenti di comprensione e di equità che dovrebbero essere propri dell’uomo; che ha un atteggiamento aperto, solidale verso gli altri; conforme alla natura dell’essere umano.

Tanto più restiamo razionali e non completamente coinvolti al punto da farci stravolgere, tanto meglio riusciamo a rispettare noi stessi ed evitare di calpestare gli altri col nostro egocentrismo.

È come utilizzare un paracadute per rallentare un veicolo molto veloce: il passeggero potrebbe non gradire il contraccolpo mentre chi “guida”, sa esattamente cosa sta accadendo e perché.

Cari Lettori, in fin dei conti, la chimica farmaceutica non insegue una stabilizzazione del tono dell’umore con i sali di litio, la carbamazepina, il valproato e, in determinate occasioni, con una terapia combinata di ansiolitici e inibitori selettivi del riassorbimento di serotonina? Almeno, con la gestione emotiva di cui stiamo parlando, gli effetti collaterali sono fisiologici e riguardano il mondo degli stili difensivi dell’Io che abitano nei “quartieri alti”…

Già immaginiamo la domanda: E quali sono, questi fisiologici effetti collaterali?

Uno fra tutti: il non avere più il lusso di generare e mostrare liberamente, come i bambini, le proprie emozioni.

Ci rendiamo conto di apparire, in questo momento, emotivamente freddi, al confine col cinismo…

Ma, in realtà, ci stiamo mostrando con una dimensione caratteriale “controllata”

“Controllo” viene dal francese “contròle” da “contre – role”, che significa riscontro, verifica. Di conseguenza, controllare se stessi equivale a verificare i propri elaborati, magari con l’aiuto di riflessioni un po’ più ponderate, per cercare di capire se le reazioni sono adeguate o meno allo stimolo, per poi decidere se scaricare all’esterno le proprie emozioni.

Solo nel caso in cui si stabilisse di trattenere lo sfogo, si configurerebbe il “reato” di repressione a danno proprio. Anche se, dicono gli esperti, esiste un “meccanismo di difesa” abbastanza maturo che prende proprio il nome di repressione come decisione consapevole e volontaria di non prestare attenzione a un particolare sentimento, stato o impulso.

Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima vagante ( Kahil Gibran).

Se volessimo esemplificare il discorso traducendolo in linguaggio “automobilistico rallistico” potremmo parlare di “sbandate controllate”: s può andare forte ma, dove vuoi tu e alle tue condizioni. Finché è possibile, ovviamente.

Un po’ come dire: “leggerezza” senza “superficialità”

Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli è giunto a liberarsi da quell’Io che lo opprime (Albert Einstein).

Allora, forse, il “segreto” sta nel costruire un buon rapporto con noi stessi

Come riportato dalle più autorevoli fonti della psicologia e psichiatria psicodinamica, ognuno di noi è l’insieme di ciò che percepisce di essere e di quello che, in maniera oggettiva, in realtà non sia.

Ciascuno, quindi, finisce con l’essere il risultato di un insieme di numerose variabili, che includono: le proprie caratteristiche fisiche; le proprie capacità e il proprio stile cognitivo; le proprie credenze; l’esperienza soggettiva della propria storia; il background socioculturale; il proprio cervello inteso come il prodotto delle interazioni tra geni e ambiente (quindi, come insieme di circuiti neurali plasmati dall’esperienza; le interazioni interiorizzate con gli altri che sono rimesse in atto inconsciamente, generando impressioni negli altri; i conflitti consci e inconsci e i meccanismi di difesa associati.

Per cui, la soluzione è quella di raggiungere una adeguata maturazione dell’IO, che prevede:

la opportuna mediazione tra Es, Super-Io e realtà; il corretto esame di realtà; un’immagine di sé non “distorta”; un contestualizzato orientamento spazio-temporale; una capacità di giudizio “oggettiva”; il controllo delle pulsioni; la tolleranza delle frustrazioni; una adeguata gestione dei conflitti interiori.

Le case abbandonate sono come gli uomini. Alcuni tengono duro, altri crollano. (Cit.)

A questo punto, potremmo chiederci come fare a conciliare il bisogno di amore con la paura di restare feriti….

Il primo maggio del 1994 era domenica. Si correva il Gran Premio di Formula Uno di San Marino. Ayrton Senna, stava attraversando uno dei suoi periodi più difficili sul piano umano ed era visibilmente stanco.

Si dice che qualcuno gli abbia suggerito di lasciar perdere, per quella volta. In fondo per una volta si sarebbe potuto fermare. La fantasia popolare narra che lui, che “sentiva” l’asfalto forse più di ogni altra cosa, abbia risposto, poco prima di infilarsi il casco, con la sua solita espressione intensa e introversa: “Amo troppo quello che faccio e, fermarmi per paura di soffrire, sarebbe come rifiutare di vivere per paura di morire”.

Partì per la sua ultima corsa e, contro un muro, il suo spirito si staccò dal corpo e diede origine alla nascita di una leggenda.

Cari Lettori a noi capita, spesso, di scoprirci tristi ma. al tempo stesso, “stranamente” felici.

Vorremmo, proprio per questo, questa volta, salutarvi con qualcosa che possa dare un senso a questo stato d’animo.

E, per questo, abbiamo scelto la suggestiva immagine di copertina.

Un bambino nell’atto di confessare le proprie paure ma, al tempo stesso, anche la voglia di scoprire il mondo nonostante l’angoscia della solitudine.

Ha, dalla sua, la purezza di un’energia che, pur essendo ambivalente (per via degli istinti non domati) può proiettarlo, in potenza, su un percorso di regalità e sapienza.

Ad ascoltarlo, un Leone che incarna e simboleggia tutto ciò e che, tranquillo del destino del “pargolo”, può con dignità uscire di scena.

Testimoni di ciò, un albatros (che racconterà ai suoi simili, di aver assistito ad una esperienza spettacolare) e un pallone, simbolo del voler continuare a “giocare”.

Nel rispetto delle Leggi di quella Natura che ci avvolge come il grembo di una madre.

Cari Lettori, per meglio assaporare le note dolci amare della lontananza da chi abbiamo amato oltre ogni misura, ci permettiamo di suggerire la rilettura di questo editoriale, con il particolare sottofondo musicale che sottoponiamo alla vostra attenzione.

“Un tempo si credeva che lo zucchero si estraesse solo dalla canna da zucchero, ora se ne estrae quasi da ogni cosa; lo stesso per la poesia, estraiamola da dove vogliamo, perché è dappertutto” (Gustave Flaubert)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto e ad Erminia Acri per la preziosa collaborazione e un abbraccio affettuoso all’amica Mariella Cipparrone