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La grande malattia del ventesimo secolo è la perdita dell’anima. Quando l’anima è trascurata, non si limita ad abbandonarci; essa ricompare nelle ossessioni, nelle dipendenze di ogni genere, nelle forme di violenza e nella perdita di significato. Se non viene onorata, la capacità creativa dell’anima porta alla rovina. (Thomas Moore)

Cari Lettori, l’intensa immagine di copertina evoca quel bisogno insito in ogni bambino che, da adulti, ci portiamo dentro: la speranza di un abbraccio che ci riporti (anche solo per un istante) nel posto più bello del mondo, nel momento più bello di sempre: il grembo materno, nei primi frammenti della nostra tormentata e travagliata esistenza, prima che la condanna alla Solitudine ci presenti il conto dell’angoscia e del lutto delle origini…

Nel 1970, Alberto Bevilacqua dirige “La Califfa”, estrapolato dal suo omonimo romanzo del 1964, ambientato in una ricca e spietata Parma degli anni sessanta e interpretato da Ugo Tognazzi e Romy Schneider

Annibale Doberdò, ex operaio divenuto il più importante industriale della città ritrova, in Irene Corsini (vedova di un operaio “caduto” nella lotta contro i padroni) quel filo di Arianna smarrito con l’aumentare del senso di potere sugli altri che, a poco a poco, ha attenuato la ricerca di una vita come “segno” di una “bella” presenza. Ritrova, allora, il piacere di “ricominciare” creando un modello di azienda, con la compartecipazione degli operai alla gestione, capace di divenire modello di Umanità e Parità, anche se con bassi (o nulli) margini di profitto. Consapevole di dover morire per mano di tutti coloro che non avrebbero mai accettato l’idea di una Società più giusta, si offre al Martirio, pur di non tradire se stesso, una seconda volta.

Mi torna in mente l’insegnamento del, per me, “maestro” Mario Boni quando, alla fine degli anni ottanta (da Vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Roma, Segretario dell’Ordine Nazionale dei Medici e Presidente della Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale) ebbe a dire: “Molti di quelli che entrano nei nostri studi, più che di malattie organiche soffrono di disturbi psicosomatici, per via del cambiamento sociale che ha inciso sull’equilibrio di ognuno. L’uomo di ieri, basava i suoi sistemi di vita su valori che davano luce nei momenti difficili e che, oggi, non ci sono più. Ed è per questo che, chi soffre, cerca in noi quella figura su cui poter poggiare in maniera altrettanto ferma”

I Valori, insomma…

Quelli che, ogni genitore, spera di poter trasmettere al proprio figlio. Magari con l’aiuto della Scuola e confidando in una Società migliore

Nelle immagini più significative della mia memoria, c’è quella di una mamma che, nel mio studio, piangendo, si sfoga per il dolore e la vergogna di un figlio psicotico. 

Ho riflettuto e mi sono reso conto di quanto bizzarra sia la nostra vita. 

“L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma, semmai, nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi” (Oscar Wilde).

Ogni giorno che il buon Dio (per chi ci crede) manda sulla Terra, incontriamo verità speculari, accettabili tutte allo stesso modo, purché si cambi prospettiva di osservazione. Come dire: “E’ vero un certo assunto; ma è vero, anche, l’esatto contrario!”. 

Contraddizioni del vivere? 

Forse. Ma, come la mettiamo, quando scopriamo realtà che ci portano a concludere, per esempio che l’amore sia una sublime forma di egoismo? Potremmo restare confusi! Eppure, riflettendoci bene, amiamo il nostro partner in funzione della sua capacità di amarci. O di farci percepire come qualcosa (meglio se “qualcuno”) al centro di ogni sua attenzione.

E a cosa serve rispettare le leggi sociali quando, chi le promulga, mostra (senza neppure tanto pudore) di porsi al di sopra di esse, in una dimensione amorale, al di là del bene e del male?

“Ah… Mi dispiace, ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo!” (da “Li soprani der monno vecchio” di Gioacchino Belli – riportata da Alberto Sordi ne “Il Marchese del Grillo”).

E proprio adesso, mentre pigio i tasti della mia tastiera wireless, mi rendo conto delle ovvietà che siamo costretti ad ascoltare o leggere.

Praticamente delle “verità apodittiche”

Ho riflettuto sul fatto che, con tale termine, si identificano affermazioni che sono ampiamente dimostrabili. Invero, le proposizioni apodittiche si differenziano da quelle assertive, che si limitano ad sostenere che qualcosa sia vero o falso, e da quelle problematiche (o ipotetiche), che propongono solo la possibilità che qualcosa sia vero.

Per capire meglio, potremmo operare il seguente esempio: Affermare, prima dell’avvento dell’era Fascista, che i politici fossero dei ladri (foss’anche solo di speranze e illusioni) era, senz’altro, una verità ipotetica. Sostenere la stessa tesi, intorno agli anni 70 – 80 del secolo scorso (prima dell’era “tangentopoli” e “mani pulite”), diventa una dichiarazione assertiva. Proporlo, alla luce dello schifo che, senza ritegno, la gentaglia nominata al Parlamento ci costringe ad assistere, quotidianamente, diventa decisamente “apodittico”. Potrei aggiungere che, fra qualche tempo, la stessa proposizione si trasformerebbe in pleonastica, cioè ridondante. In parole povere, troppo scontata!

E allora, potendo tornare indietro nel tempo, vorrei tanto dire, alla madre addolorata che mi ha confidato le proprie pene, di non meravigliarsi di chi sceglie, per non perdersi nel vuoto della  “vera” follia, derive virtuali che il DSM (la “Bibbia dei disturbi psichiatrici) racchiude nelle varie forme di psicosi.

Nessuna vergogna, cara signora, è probabile che fra lei e me, il più sano sia proprio suo figlio che, di fronte ad una Società di Minchioni ha scelto di dire “No”!

Esiste un’opzione alternativa?

Ce ne sono, addirittura due. La prima consiste nel cercare e applicare le varie forma di compensazione più o meno nevrotica, per non “pensare troppo” e sentirsi, di conseguenza, sprofondare…

Cari Lettori, non avete mai incontrato (magari allo specchio!) individui con caratteristiche simili a quelle che mi accingo ad elencare?

Senso grandioso di importanza (per esempio, esagerando risultati e capacità, aspettando di essere notato come superiore senza un’adeguata motivazione); fantasie illimitate su successo, potere, fascino, bellezza; illusione di essere “speciale” e, di conseguenza, di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata; richiesta di eccessiva ammirazione; convinzione che tutto sia dovuto, con irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative; comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi.

Ebbene, costoro, secondo manuali specifici, appartengono alla categoria dei “disturbati” narcisisti. Quelli, cioè che, dopo aver ricevuto “in dono” la misura infinita dell’amore materno e la spinta a sentirsi belli e importanti, non hanno capito che, tale valore, va speso per il benessere collettivo.

Secondo una delle tante leggende della mitologia greca, quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ogni abitante della città si innamorava di lui ma egli, orgogliosamente, respingeva tutti.

Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco seguì il bel giovane tra i boschi desiderosa di rivolgergli la parola ma, al tempo stesso incapace di parlare per prima perché costretta a ripetere sempre le ultime parole di ciò che le veniva detto: era stata, infatti, punita da Giunone perché la distraeva con dei lunghi racconti mentre le altre ninfe, amanti di Giove, si nascondevano. 

Narciso, sentendo avvicinarsi qualcuno furtivamente, gridò: “Chi è là?”, Eco rispose: “Chi è là?” e così continuò, finché Eco non si mostrò e corse ad abbracciarlo. Narciso, ovviamente, la rifiutò sdegnato. 

Eco, con il cuore a pezzi, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo per il suo amore non corrisposto, finché di lei rimase solo la voce.

Nemesi, ascoltando questi lamenti, decise di punire il crudele Narciso in modo farlo da innamorare perdutamente della propria immagine riflessa nell’acqua del fiume. Con tale sortilegio, il giovane baldanzoso, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere un rapporto con se stesso, si lasciò morire struggendosi inutilmente. Quando le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per collocarlo sul rogo funebre, al suo posto trovarono un fiore cui fu dato il nome, appunto, di Narciso.

Ma c’è un’altra possibilità.

Provare a diventare persone più serie, smettendo finalmente di lamentarci e provando a concretizzare, in base alle circostanze e alle possibilità. 

“Io ritengo, carissimo Sereno, che Atenodòro si sia troppo sottomesso alle circostanze ritirandosi troppo presto dalla vita pubblica. Non intendo dire che non si debba mai cedere il passo ma, mi sembra, sia meglio farlo gradatamente, salvando le insegne e l’onore militare: guadagna maggior rispetto e benevolenza, chi si arrende armato ai suoi nemici. Se la sorte ostile gli negherà la libertà di azione, dovrà trovare altri modi per rendersi utile alla Società. Bada, piuttosto, che il difetto non sia dentro di te e, ricorda che, anche in una città sconvolta e in pessime condizioni, il saggio trova il modo di dimostrarsi tale; in una città florida e al culmine del benessere, regnano, spesso, la crudeltà, l’invidia e i vizi più nefandi!” (Seneca – La Serenità).

Nel 2017, in America, un bambino di 9 anni gravemente malato, ha chiesto la possibilità di anticipare il Natale, per poterlo assaporare, prima che fosse troppo tardi, per l’ultima volta. Un paese intero, unito nel soddisfare questa richiesta, si è dipinto di fiocchi di candida innaturale neve, di campane di suoni che annunciano i regali, di allegria condita da una profonda tristezza, ma con un obiettivo vivo, vero e senza niente in cambio: regalare un sorriso. Forse l’ultimo, il più sincero.

Herman Hesse ha spiegato che la vera vocazione di ognuno è una sola: quella di arrivare a se stesso. Finisca poeta o pazzo, profeta o delinquente, non è affar suo, e in fin dei conti è indifferente. Affar suo è trovare il proprio destino, non un destino qualunque e viverlo tutto e senza fratture dentro di sé.

Cari Lettori, l’augurio è quello di incontrare ciascuno, la propria “Califfa” in cui ritrovare quell’Amore e quella Forza che ci ha convinto a venire al mondo e che ci riscalderà in un cammino che non conoscerà parabole discendenti ma, al contrario, disegnerà una bellissima iperbole all’interno di una sceneggiatura esistenziale, simile a quella “musicata” da Ennio Morricone

Per far si che, i nostri genitori (ovunque siano), possano esclamare con orgoglio: “Quello è mio figlio!”

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per la sua affettuosa ricerca di aforismi e spunti di riflessione

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