Il cristallo italiano. Modernità e metacinema.
Il neorealismo è, senza dubbio il movimento del cinema italiano che ha conquistato maggiori consensi e maggiore fama in tutto il mondo.
Non è semplice, oggi, comprendere in tutte le sue implicazioni un fenomeno che fu senz’altro complesso e che non può essere ridotto a una formula o a un’immagine stereotipata. Tuttavia, poche opere sono state sufficienti a definire una nuova estetica, capace di rinnovare non solo il cinema italiano, ma anche di costituire un punto di riferimento per altre cinematografie, in varie parti del mondo.
L’impiego di attori non professionisti, il realismo dell’ambientazione ottenuto abbandonando gli studi di posa a favore delle riprese in esterni, l’adozione di uno stile documentaristico, la narrazione di vicende ispirate alla vita quotidiana, ai fatti di cronaca: sono questi i principi estetici introdotti dal neorealismo.
Questa interpretazione del neorealismo, incentrata soprattutto sulla “rivoluzione” estetica del cinema, rimane una delle più suggestive in quanto permette di gettare un ponte ideale tra il neorealismo e il “cinema moderno”, quello della nouvelle vague e di tutti i movimenti di rinnovamento degli anni sessanta, e oltre, che, direttamente o indirettamente si rifaranno al modello neorealista.
A partire dalla presentazione, nel 1946, alla prima edizione del festival di Cannes di Roma città aperta, il nuovo cinema italiano conobbe un successo internazionale senza precedenti .
È vero che la grande rivoluzione il neorealismo la attuò a livello estetico, ma non solo.
La modernità di forme, di contenuti, di segni, di linguaggio cinematografico diventa il punto di partenza e di arrivo del ruolo figurativo della macchina da presa, ovvero, dietro la riproduzione “fedele” della realtà, in realtà non si cela la riproduzione propria dell’apparato cinematografico che definisce il metacinema.
Il metacinema è sempre esistito, si possono trovare riferimenti e autocelebrazioni fin dagli esordi del cinema, esplicitazioni dirette che riportano al concetto di spettacolarizzazione e di riproduzione, o più semplicemente a quella operazione che si può definire esplicitazione dichiarata del cinema nel suo farsi.
Anche il metateatro si può far risalire ai tempi di Shakespeare, dove la rappresentazione ruotava intorno al gioco del teatro nel teatro.
Quasi che l’arte del “raccontare” nel momento in cui si rivolge ad un pubblico non resiste alla tentazione di dichiarare la propria provenienza, il proprio mondo, quale mondo a “se”. Ma questa pratica almeno fino all’avvento della modernità, era vissuta non come momento di riflessione, ma semplicemente come pratica di “autocelebrazione”.
Qualcosa cambia all’interno del cinema, quando questo prende coscienza di se e dell’utilizzo dei propri mezzi. Se ci si fermasse solo all’aspetto delle citazioni e dei rimandi o ai virtuosismi delle pratiche di regia, poste all’uso nell’intenzione di voler svelare il mezzo cinematografico, tutto ciò si può trovare all’interno di numerosissimi metafilm espliciti.
Si tratterebbe in qualche modo di voler sminuire o di non voler riconoscere la qualità fondamentale di un’arte che poggia sì sulla riproduzione, ma anche e soprattutto sulla simulazione.
È sintomatico come all’interno della storia della critica cinematografica, sia centrale il dibattito sul concetto di “realtà” e di realismo cinematografico. Sin dall’origine dell’industria dell’immaginario, le concezioni di “cinema della realtà” e di “realtà del cinema”, a partire dalla contrapposizione Lumière-Méliès appaiono come due facce della stessa medaglia.
E il neorealismo riapre il dibattito intorno al concetto di realtà o meglio sulla nuova immagine, di “realtà” cinematografica che propone, contrapponendosi alla “realtà” del cinema classico hollywoodiano.
Il dibattito si fonda proprio sulla contrapposizione tra i concetti di “realismo psicologico” tipico del cinema classico, il quale attraverso la “trasparenza” del montaggio operava una riproduzione del reale e il “realismo estetico” del cinema moderno.
Si riconosce nella modernità del neorealismo, soprattutto un’evoluzione del linguaggio cinematografico. Il cinema italiano nell’utilizzare l’aspetto riproduttivo del mezzo cinematografico riesce a restituire l’ “illusione del reale” , ma anche una “partecipazione al reale”, in senso zavattiniano : i fatti non nascono da soli, ma nascono perché noi partecipiamo ad essi.
Il concetto di realismo nella modernità cinematografica, ad opera di registi quali Rossellini, Visconti o della coppia De Sica- Zavattini, non è legato soltanto ad una realtà fenomenica delle città italiane dell’immediato dopoguerra, ma soprattutto all’immagine che questi registi hanno saputo rendere di quella realtà.
Un’immagine che trae spunto, certo da un’Italia che rinasce dalle macerie della guerra, ma anche dalla letteratura americana, ricordiamo che
Ossessione (1943) è considerato il film precursore del neorealismo, tratto dal romanzo di James Caine Il postino suona sempre due volte. Ma anche dalla letteratura verista del Verga de I Malavoglia che Visconti userà per la realizzazione di La terra trema, o ancora, del realismo poetico francese di Carné e Renoir cui Visconti dichiaratamente s’ispira.
Ma l’originalità del neorealismo, nasce anche dall’utilizzo di una commistione di generi.
Roma città aperta per quasi tutta la prima parte è una commedia, prima di diventare un film drammatico, una tragedia classica e un film resistenziale.
Altra caratteristica del cinema neorealista è l’uso che questa cinematografia fa dei diversi media, a partire dalla “voce off”, tipica della radio, che tra l’altro ebbe una grande importanza nel periodo della resistenza in Italia. La voce fuori campo è presente in molti film neorealisti, da La terra trema a Paisà. Con questo procedimento si instaura un’altra componente tipica della modernità : la metacomunicazione.
Le presenze extradiegetiche quali cartelli che ambientano la vicenda, voci fuori campo, figure di informatori, personaggi che raccontano, testimoni che parlano o che prevedono, come nel caso della santona in Ladri di biciclette , o ruoli professionali quali fotografi e registi, metacomunicano la figura dell’Autore.
Il cinema usa i propri mezzi per autoraccontarsi, lo fa a volte esplicitamente, con opere che documentano l’ambiente cinematografico: “il cinema nel cinema”, come accade in Bellissima di Luchino Visconti.
La figura di un regista all’interno di un film certo non è una novità prima di Bellissima e non lo sarà neanche dopo, ma all’interno del film di Visconti avviene qualcosa che non era accaduto prima.
La Stella Film bandisce un concorso, cerca una bambina tra i 6 e gli 8 anni, una graziosa bambina italiana. Le bambine che sosterranno i provini saranno selezionate dal regista Alessandro Blasetti.
Non da un attore che impersona la figura del regista o da un regista che interpreta la parte di un regista, vedi Truffaut in Effetto notte in cui interpreta il regista Ferrand che deve girare il film hollywoodiano Vi presento Pamela. Ma, da Alessandro Blasetti, regista neorealista che interpreta se stesso all’interno di un film neorealista.
Il gioco viene svelato, lo spettatore viene direttamente in contatto con la “finzione” cinematografica, con l’autoreferenzialità più sfacciata.
I provini si terranno all’interno degli studi del teatro 5 di Cinecittà, considerato il regno del regista neorealista Blasetti. L’ingresso di Alessandro Blasetti, o meglio del metaregista, all’interno degli studi, viene sottolineato dal sottofondo delle note del “ciarlatano” di Donizetti, un accostamento certo non casuale, in cui il regista-Blasetti viene paragonato al dottor Dulcamara, lo spacciatore d’illusioni del L’elisir d’amore.
La riflessione viscontiana sul cinema e sul rapporto con la realtà, intesa non solo come realtà oggettiva, ma soprattutto come realtà cinematografica pervade tutto il film.
Sarà proprio il metaregista Blasetti che lancerà un’accusa esplicita verso la fine del film “È un’altra poveretta…“ rivolgendosi al produttore “Vede caro Tofarelli, questo è il cinematografo capisce? Queste sono faccende che combiniamo noi”.
E l’attrice Liliana Mancini, anch’essa interprete di se stessa, che affermerà di aver recitato in Sotto il sole di Roma di Castellani, non risparmierà la sua critica verso il neorealismo: “M’hanno preso na’ volta, du’ volte così perché ero il tipo che servivo a loro. Francamente m’ero pure un po’ illusa. E c’ho rimesso l’impiego col fidanzato che c’avevo…ne’ so’ venuti tanti de disgraziati co’ ‘st’ illusione del cinema…io poi che m’ero messa in testa d’esse tanto brava, tanto bella… eppure eccome qua, sto’ al montaggio…più nessuno m’ha chiamato”.
La modernità cinematografica attraverso l’ “autoriflessione”, scavalca i confini delimitati dal cinema classico americano per approdare ad un nuovo regime dell’immagine: quella metacinematografica.
E allora il gioco si fa più sottile, all’interno del duplice livello e della duplice forma reale-virtuale, vero-falso; l’autoriflessione si pone come l’unico modello possibile che l’arte cinematografica possiede per dichiarare il proprio “falso-vero”.
Ed è maggiormente più vera quando non perde la propria “falsità” e anzi la usa come momento di riflessione in cui si svela la vera autenticità dell’arte, all’interno di un paradosso in cui si “cristallizza” la doppia immagine dell’immagine cinematografica moderna.