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Stasera l’Alabama ha fatto sì che l’umanità facesse un passo indietro. Me ne vado con amore, pace e luce, grazie per avermi sostenuto, amo tutti voi

La prima condanna a morte negli Stati Uniti con l’utilizzo di una maschera ad azoto è stata eseguita. Kenneth Eugene Smith è stato giustiziato giovedì sera, nell’Holman Correctional Facility di Atmore, in Alabama.

Nonostante gli inviti a desistere giunti da più parti, sia perché 34 anni nel braccio della morte avevano trasformato un assassino in un animo decisamente più “sensibile” sia perché, lo stesso, era sopravvissuto (non senza traumi permanenti) al tentativo di iniezione letale, nel 2022 e, infine, perché la scelta del soffocamento con azoto è assimilabile a una dì forma di tortura…

Nonostante tutto questo, le autorità dell’Alabama hanno deciso di procedere con l’applicazione di una legge che sa molto di vendetta.

Cari Lettori, ci si rende conto del fatto che il titolo dell’Editoriale di questa settimana possa apparire provocatorio.

Ma, davanti al calendario, troviamo la data del 27 gennaio: il giorno della Memoria.

E quindi, considerando le aberrazioni sempre più manifeste che evidenziano ipocrisie enormi non tanto diverse dalle nefandezze compiute ai danni degli Ebrei da ogni forma di Nazismo (e considerando, tristemente, l’assoluta brutalità dell’attuale esercito israeliano contro una popolazione inerme, usata come scudo da terroristi senza scrupoli) e ritrovando il termine in questione in ogni dizionario della lingua italiana, è sembrata opportuna un’azione di sfondamento antireticente.

Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: “Oh, è terribile quel che fanno questi giovani a sé stessi! Secondo me la droga è una cosa tremenda!”. Poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avranno fatto a ridurla in quello stato i thè con i pasticcini e la Chiesa (Charles Bukowski)

La derivazione del termine minchione prende origine dal latino mencla, formula volgare di mentula che è diminutivo di menta, che indicava appunto l’organo sessuale maschile (la radice ment- indicava una sporgenza, vedi parole come “mento” o “monte”).

La radice indoeuropea è mat- che probabilmente indicava lo scuotimento e da cui sono derivate parole che indicano arnesi per agitare il burro durante la preparazione (ad esempio nel sanscrito con manthara).

Altri fanno derivare la radice da mingere che significa orinare.

La parola ha prodotto anche altri termini derivati come minchiata, per indicare sciocchezza minchione, per indicare una persona sciocca, insulsa, ingenua, credulona e autolesionista. 

Si lascia a voi, cari Lettori, il compito di stabilire l’attinenza di tutto ciò, con quanto si andrà descrivendo.

Tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla. (Charles Bukowski)

Gli antichi solevano dire “historia magistra vitae“, sperando che gli uomini avrebbero fatto tesoro di errori e orrori commessi. Purtroppo, con amarezza bisogna constatare che la lezione della storia non è stata mai ben recepita.

Durante gli anni del periodo nazista sono stati commessi crimini contro l’umanità senza paragoni col passato ma che sono stati ben emulati nei tempi che sono seguiti.

Col progresso tecnico, infatti, sono aumentate a dismisura le crudeltà umane, raggiungendo livelli di belluinità inaudite.

I campi di sterminio resteranno (o dovrebbero restare) a futura memoria come momenti in cui l’essere Umano ha rinnegato sé stesso, dando voce al “terrificante” che è presente nell’abisso della malvagia coscienza.

Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipendere dall’opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento tra i più naturali, il dolore. (Seneca, La tranquillità dell’animo)

Un pugno. Un colpo inferto con la mano chiusa e le dita ripiegate per infliggere colpi dalla massima efficacia. Espressione di offesa ma, anche di difesa, tutte le volte che si serrano le dita quando fa freddo, o si ha una forte paura…

Ripartendo dalla premessa di questo Editoriale e riflettendo sui (poco utili) fiumi di inchiostro (e di Bit) riguardanti il giorno della memoria, abbiamo vissuto non pochi momenti conflittuali, fortemente convinti, infatti, della scarsa utilità di celebrare qualcosa che, in un modo o nell’altro si ripete, in qualche angolo del mondo, senza sosta.

Tanto, non cambia niente! 

Un pugno. Sinceramente ne abbiamo tirati pochi, in termini assoluti. Ma tanti, in una ristretta unità di tempo. Un po’ perché la vita, spesso, va difesa e conquistata col coltello fra i denti e un po’ perché, uno di noi due si è cimentato per quattro anni (dal 1978 al 1981), nella cosiddetta “nobile arte” del pugilato.

E questo incide non poco.

Perché, noi esseri umani, litighiamo? Qual è il motivo per cui non riusciamo a collaborare e condividere? Da dove viene, quello strano dolore che ci porta a seguire il motto del “tanto peggio, tanto meglio”?

Oltre quello che ci hanno spiegato i padri della psicanalisi, forse ha proprio ragione Eraclito quando sostiene che, siccome tutto scorre e gli opposti si attraggono, è proprio dal movimento e dagli scontri che ne conseguono, che nasce la vita.

D’altronde, la fisica moderna studia il fenomeno in base al quale è dimostrato che, a furia di collidere, da particelle note, con la loro annichilazione, ne nascono altre, anche di quelle nuove, proprio mai viste! 

Ma ti sembra possibile che prendano i bambini e li portino nelle camere a gas? E magari li bruciano anche nei forni. E poi ci fanno il sapone. E i bottoni. Guarda qua, questo è il mio amico Ruggero, che è diventato una fibbia (Roberto Benigni – La vita è bella).

Come dimenticare la scena finale di quel toccante spaccato della Società europea all’epoca della seconda guerra mondiale, quando il Mondo, o una buona parte di esso, ha tollerato e, in alcuni casi, incentivato l’ascesa al potere e il dilagare di un individuo che si chiamava Adolf Hitler (magari con la segreta speranza che riuscisse, al contrario di Napoleone Bonaparte, a destabilizzare una volta per tutte l’impero delle Russie)?

Un carro armato alleato entra in ciò che resta di un campo di stermino in cui, un piccolo eroe disarmante e armato solo del suo ingenuo ottimismo (interpretato, appunto da Roberto Benigni) salva il figlio dall’orrore facendogli credere che è tutto un gioco e che, alla fine, il vincitore si aggiudicherà, appunto il mezzo blindato.

Il 27 gennaio 1945, verso mezzogiorno, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione di Berlino arrivarono presso la città polacca di Oswiecim (nota con il nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento e liberandone i pochi superstiti.

La scoperta di questo orribile posto e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono per intero e, per la prima volta, al mondo, l’orrore del genocidio nazista: una verità che ancora ferisce e grida l’orrore dell’Olocausto.

Con una legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000 la Repubblica italiana, come altri stati europei (fra cui la Germania e la Gran Bretagna), riconosce il 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, come “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte e affinché simili eventi non possano mai più ripetersi.

Un pugno, uno di quelli che ti sorprendono al mento e ti concedono (come ci ha spiegato il grande Mohamed Alì) di vedere, mentre scivoli giù a provare la polvere del tappeto, pipistrelli che ti irridono e coccodrilli che suonano il sax.

Perché, come ci ha tramandato Sofocle:

 I più grandi dolori sono quelli di cui noi stessi siamo la causa (Sofocle)

In realtà, come ha raccontato anche Liliana Segre,  i Sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi, Chelmno, e Belzec, ma questi campi detti più comunemente di “annientamento” erano vere e proprie fabbriche di morte dove i prigionieri e i deportati venivano immediatamente gasati, salvando solo pochi “sonderkommando” (unità speciali di deportati, obbligati a collaborare nel processo di sterminio dei loro stessi correligionari, durante le operazioni di rimozione dei corpi dalle camere a gas e quelle successive di cremazione).

Il lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio (Jorge Luis Borges).

Tuttavia l’apertura dei cancelli ad Auschwitz, dove 10-12 giorni prima i Nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con sé, in una “marcia della morte”, tutti i prigionieri abili, molti dei quali morirono durante la marcia stessa, mostrò al mondo non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento del lager (anche se è doveroso dire che due dei forni crematori situati in Birkenau I e II furono distrutti nell’autunno del 1944).

L’obiettivo della memoria, in neurologia, è quello di poter stabilire chi siamo, sul piano storico dichiarativo e, nel mondo della psicologia del profondo, la possibilità di rievocare contestualizzazioni in grado di risolvere l’angoscia: comunque lo si voglia considerare, consente (sempre e comunque) di utilizzare l’esperienza acquisita mediante il meccanismo dell’apprendimento.

Ci si aspetterebbe il diniego assoluto di ogni coscienza civile, circa la possibilità del reiterarsi di simili esperienze.

Purtroppo, la storia contemporanea ci insegna che, l’essere umano, a volte utilizza il peggio di quanto gli antenati hanno tramandato nella risoluzione dei problemi interpersonali. La moltitudine di campi profughi e le condizioni disumane in cui versano gli occupanti stanno lì, testimoni di un tempo che non è andato di pari passo all’evoluzione sociale.

È molto più facile chiedere rabbiosamente una sintonia totale con il genitore (o con il Passato) che non sopportare il rapporto imperfetto che in realtà è sempre stato. Noi continuiamo a chiedere testardamente una riparazione, sperando contro ogni speranza che il rapporto con i nostri genitori (o con i nostri errori) si risani; sperando di ottenere quella resa senza parole alla persona amata che non abbiamo mai vissuto, o di raggiungere con coloro che ci hanno deluso un tipo di rapporto dove essi non ci deluderanno più. Ma, alla base di questi comportamenti, c’è sempre il desiderio di cambiare l’altro, mai sé stessi. (Mark Epstein)

Un pugno, l’ultimo, di quelli che ti prendono quando, con le spalle alle corde aspetti solo di “essere contato” dall’arbitro perché finisca lo strazio e che, invece, magicamente ti rilanciano al centro del ring, con l’avversario che ti concede un’altra chance. L’onore delle armi.

Nel 2012, si è avuta l’opportunità di accompagnare per una intera giornata un anziano Rabbino, Rav Moshe Lazar, in occasione di una emozionante celebrazione della memoria in quel piccolo “presepe” che è Cerchiara di Calabria.

Quello che ci ha colpito, più di ogni altro elemento, un aneddoto da lui riportato e che, da rispettosi del dolore di ogni “senziente”, ancora oggi non può lasciarci indifferenti: Una signora, al suo decimo parto, viene redarguita dal proprio ginecologo e diffidata dall’intraprendere ulteriori gravidanze. “Troppi figli. Ora basta!” Il giorno dopo, l’illustre luminare, durante il solito giro di controllo mattutino, trova, nella stanza della puerpera, l’intero gruppo familiare, a fare da corona ad una madre così coraggiosa. “Medico, questi non sono soltanto miei figli, no! Questo è Mario, il più grande, dal folto ciuffo nero; questo è Antonio ed ha delle bellissime lentiggini; questo è Andrea, dagli splendidi occhi azzurri; questo è Dario, il più forte di tutti; questo è Sasha, e mi fa tenerezza con la sua erre moscia; poi c’è Maria, dai riccioli biondi; Valentina col suo bel nasino; Martina, con le treccine; Rita, che da grande farà la ballerina e, infine, l’ultima, la Rosa del mio cuore. Loro non sono soltanto numeri… sono tante gioie, uniche e irripetibili. Medico, dimmi: tu, a chi avresti rinunciato?”

Cari Lettori, ad uno di noi due è stato detto che, da piccolo, a scuola, quando non riusciva a risolvere i problemi di matematica, si tiravo dei pugni in testa, forse per spremersi le meningi…

Beh, riteniamo che dovremmo smetterla di scontrarci gli uni con gli altri.

È arrivato il momento di ricordarci che, Eraclito, ha spiegato l’esistenza di un ragionamento logico (un logos, appunto) sottostante al continuo mutamento: un’armonia profonda che governa in modo oscuro e inconoscibile la perenne dialettica fra i contrari, che provoca il divenire perpetuo degli enti sensibili.

Lo scontro, se proprio deve esserci, è bene che avvenga in noi, per generare quella necessaria e salutare crisi interiore che ci farà diventare migliori. Necessariamente. 

Prima di salutarci, vorremmo soffermarci sul fatto che il desiderio di vendetta è figlio del vissuto di impotenza (intriso, a sua volta, di rabbia), che sperimentiamo quando sentiamo di aver subito un’ingiustizia (a torto o a ragione).

Ci spiegano gli psicoanalisti, che, tanto più le fantasie verso chi ci ha ferito sono cariche di odio, di rancore e di aggressività, tanto più è intenso e paralizzante il vissuto di impotenza sottostante

Anche se Erich Fromm sosteneva che “la passione della vendetta è talmente radicata in profondità, da essere sicuramente presente in tutti gli uomini”, si è arrivati finalmente a comprendere che, il desiderio di vendetta, altro non è che una confessione di dolore.

Cari Lettori, ringraziandovi per la disponibilità nell’averci seguito in questa “fatica” che, nonostante la durezza del titolo, speriamo di aver affrontato con la consueta  sensibilità e delicatezza, vorremmo accomiatarci abbinando il “dolore” dell’immagine di copertina alla bellissima “poesia” in versi di Lucio Dalla

Henna

Adesso basta sangue. Ma non vedi? Non stiamo nemmeno più in piedi. Un po’ di pietà!

Invece tu, invece fumi, con grande tranquillità. Così sta a me, a me che debbo parlare, fidarmi di te. Domani, domani Domani chi lo sa che domani sarà

Oh-oh, non lo so quale Dio ci sarà. Io parlo e parlo solo per me

Va bene, io credo nell’amore L’amore che si muove dal cuore, che ti esce dalle mani e che cammina sotto i tuoi piedi.

L’amore misterioso anche dei cani e degli altri fratelli animali; delle piante che sembra che ti sorridono anche quando ti chini per portarle via…

L’amore silenzioso dei pesci che ci aspettano nel mare L’amore di chi ci ama e non ci vuol lasciare

Ok (ok), lo so che capisci ma sono io che non capisco cosa dici Troppo sangue qua e là sotto cieli di lucide stelle, nei silenzi dell’immensità

Ma chissà se cambierà, oh, oh, non so Se in questo futuro nero buio, forse c’è qualcosa che ci cambierà

Io credo che il dolore: è il dolore che ci cambierà

E dopo chi lo sa. Se ancora ci vedremo e dentro quale città, brutta, fredda, buia, stretta o brutta come questa, sotto un cielo senza pietà

Ma io ti cercherò, anche da così lontano ti telefonerò, in una sera buia, sporca, fredda, brutta come questa, forse ti chiamerò perché, vedi, Io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà

Cattivo come adesso, non lo sono stato mai. E, quando mezzanotte viene, se davvero mi vuoi bene, pensami mezz’ora almeno e, dal pugno chiuso, una carezza nascerà. (Adriano Celentano – Una carezza in un pugno)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore La Strad@

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto  per la preziosa collaborazione e al Rav Moshe Lazar il quale, con la sua  “dignitosa” e “umile” partecipazione, ci ha ricordato che, nonostante la nostra presunzione di considerarci, a volte, troppo simili a un Dio siamo, in realtà, “soltanto” degli uomini, in mezzo ad altri in cerca della strada “Maestra”.