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La sensibilità di chi ci sta accanto, è la cura migliore!


 

Counseling news

Sacks, da dottore a paziente, racconta la sua malattia

Il neurologo più famoso del mondo, Oliver Sacks, autore di libri di grande successo, confessa che L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, titolo del libro che lo rese famoso anche in Italia, in fondo lo riguarda, personalmente, più di quanto si possa immaginare. Oggi, a quasi 80 anni, scopre di avere quasi perso la vista dall’occhio destro a causa di un tumore e, inoltre, non riconosce i volti. Il neurologo ha reagito scrivendo “L’occhio della mente”, quello che integra la visione perduta con le esperienze elaborate dal cervello.


Ormai vivo in un mondo piatto. E so benissimo che non sarà più come prima. Mi adatto: ci provo. Ma a volte faccio errori bizzarri. Tendo la mano e manco la presa. Oppure cerco qualcosa e sbaglio bersaglio. Vivo in un mondo a due dimensioni e in città è tutto più complicato – spiega Sacks – I bordi dei marciapiedi che non riesci a intravedere. Mi adatto: anche se non così bene come pretendo dai miei pazienti. Vivo circondato da lenti di ingrandimento. Leggo libri che hanno i caratteri più grandi. Potrebbe andare meglio se mi operassi di cataratta: ma se andasse storto mi ritroverei completamente cieco.


Nel passaggio da medico a paziente, ammette di aver imparato ad ascoltare con più attenzione. Anche in passato ha sempre cercato di immaginare quello che provava l’altro, adesso cerca di fare più attenzione a quello che dice lui al paziente.

Ripenso al momento in cui il mio medico mi accennò alla possibilità di un tumore all’occhio. Non finii neppure di ascoltarlo e nella mia testa risuonavano solo due parole: cancro, cancro. Non dico che ci sono volte in cui il medico non debba dire la verità. Ma la delicatezza prima di tutto!

 

Veronesi e la rivoluzione copernicana in oncologia

A fine 2011 si è svolta una maxi indagine condotta dal Censis, istituto di ricerca socioecomonica, in collaborazione con la Favo, la federazione delle associazioni di volontariato al servizio dei malati di cancro, su mille malati di tumori e su 700 caregiver. Dai risultati emerge che, oggi, il cancro fa sempre più paura nonostante i progressi della medicina. Non mancano le ripercussioni sul sociale: circa otto pazienti su dieci subiscono un peggioramento economico e lavorativo dopo la diagnosi, inclusa la perdita del posto di lavoro. Un paziente su tre, ad esempio, teme che i tagli alla Sanità  limiteranno la disponibilità  di cure anticancro innovative.

Umberto Veronesi, ha dichiarato che la laurea Honoris causa, ricevuta dal King’s College di Londra, evidenzia un segnale di apprezzamento internazionale dell’Italia come culla del principio dell’integrità del corpo nella cura dei tumori.

Al di là della problematica oncologica, Abbiamo allargato l’orizzonte della medicina dalla quantità di vita, vale a dire la sua durata, alla qualità di vita, nella convinzione che vivere senza qualità è vivere a metà”, ha detto Veronesi durante la sua lectio magistralis.

“Le ricerche italiane – ha continuato l’oncologo – hanno dimostrato che il principio da seguire nella scelta di una terapia non è il massimo tollerabile (la dose o l’intervento più massiccio che il paziente può sopportare), ma il minimo efficace (il trattamento che a parità di efficacia garantisce la minore invasività o tossicità per il malato). E’ stata una rivoluzione copernicana in oncologia”.

 

E, a proposito dell’importanza di una corretta comunicazione fra medico e paziente, soprattutto in momenti così delicati, l’illustre oncologo, ha aggiunto:

 

Ho sempre pensato che sia giusto spiegare la situazione al paziente, passando in rassegna i sospetti diagnostici (secondo il moderno concetto di “alleanza terapeutica”), ma senza fingere d’ignorare le domande cruciali, relative alle probabilità di vivere e di guarire. Questo è particolarmente vero quando ci si trova davanti a una malattia tumorale. Certo, ci sono segnali incoraggianti: le percentuali dicono che di cancro si guarisce sempre di più. Una neoplasia, però, resta sempre una malattia grave, che sconvolge gli equilibri del malato e i suoi rapporti familiari e sociali. Perciò il medico non può, non prendere in considerazione le angosce del paziente cercando, anzi, di “prevenirle” e “sollevarle”. Profondamente convinto di questo, fin da quand’ero giovane e lavoravo all’Istituto nazionale dei tumori di Milano mi sono sempre battuto perché nei trattamenti dei malati di tumore entrasse a pieno titolo anche una particolare attenzione per gli aspetti psicologici della malattia. Da qui (ma non solo) è nata la psico-oncologia. In Italia, la Società di psico-oncologia è sorta nel 1985, sviluppandosi secondo tre filoni: le campagne informative all’insegna della prevenzione; la formazione del personale medico e infermieristico; la ricerca sulle conseguenze psicologiche della malattia sulla vita del malato per elaborare più idonei modelli di assistenza.

 

L’importanza della psico-oncologia

Non si può nascondere che, quando arriva la diagnosi di cancro, si scatena nella mente di ogni paziente una miscela di emozioni difficili da gestire. Alessandro Bovicelli, ricercatore dell’università di Bologna, scrive: “Un male così, inevitabilmente, rende più fragili psicologicamente. Il lavoro può diventare un grande alleato che distrae, entusiasma, stimola e aiuta a combattere la malattia, altre volte può rappresentare un peso quasi insormontabile. Ecco allora che un supporto per la mente e l’anima è più che mai necessario. I farmaci rappresentano un valido aiuto, ma non sempre bastano. Devono entrare in campo il counseling e la psicoterapia, in ambito psico-oncologico. I pazienti hanno bisogno di confrontarsi sulla loro nuova vita e su come approcciarsi alla malattia con esperti. Bisognerebbe che venisse istituzionalizzato in ogni ospedale un servizio di psico-oncologia. Sarebbe importante come lo sono le terapie mediche”.

Inoltre, come a volte accade, se ci si dovesse rendere conto che, all’improvviso, si fosse diventati anche un peso, per la Società? Ci si dovrebbe confrontare con una doppia afflizione (accettare la malattia e subire la discriminazione) in un momento di considerevole vulnerabità!

Come si potrebbe reagire?

Per evitare la tentazione di “lasciarsi andare”, diviene indispensabile modificare l’approccio con la persona, prima che con la malattia. Rispetto della condizione di inferiorità soggettiva; comprensione dello stato d’animo confuso; accettazione della paura altrui; condivisione dei momenti difficili per elaborare, insieme, una strategia operativa che, pur tenendo conto dei protocolli terapeutici (farmacologici o chirurgici), individui elementi oggettivi in grado di determinare la motivazione per continuare a combattere. Arricchendo la componente della propria dignità, in quanto persona e non malattia. Interessante, vero?

Tutto questo è Counseling!

 

Fonti

  • www.edott.it

 

G. M. – Medico Psicoterapeuta / Counselor – Presidente Neverland (Scarl – No Profit – ONLUS)