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Io so perché mi ammalia
il mare. Tu inspiravi
e i frangenti sulle rocce
sciabordano schiumando.

E poi che l’onda si è
franta, lenta e costante,
e scemando la cresta
respinta si ritira,

pacifica tu espiravi.
E lo sciacquio fievole
e ipnotico, amniotico,

mi riavvolge di nuovo.
E vorrei non finisse
mai. Ma senza erosione.

Commento dell’autore

Un giorno, un’amica che studiava musicoterapia, mi prestò una audiocassetta sulla quale il musicoterapista Rolando Benenzon aveva ricostruito scientificamente l’ambiente sonoro intrauterino. Da quelle due ore di ascolto, rimasi profondamente colpito: dentro il ventre materno il feto sente inspirare ed espirare la madre in un modo del tutto simile al suono del mare, delle onde quando si rompono sulle spiagge di costa bassa, del frangente e della risacca. Perfino il lieve ribollio dell’acqua sul bagnasciuga somiglia quello del liquido amniotico. Mi fu chiaro il perché del fascino del mare, dell’amore istintivo verso i suoi rumori capaci di rilassare e rievocare indefinibilmente quella sorta di umana edenica origine. Decisi fin da subito che ne avrei scritto in un sonetto. Per la fortuna di cui ha goduto lungo i secoli, il sonetto può essere infatti considerato come una vera e propria metafora del fare poesia, quindi una madreforma. Scelsi la variante del sonetto minore in settenari, dove l’accento fisso sulla sesta sillaba potesse simboleggiare e indicare la figura del 6 simile a madre col suo pancione nel periodo della gravidanza entro cui ritmare verso per verso il ritorno, la rievocazione dei rumori marini e similmente intrauterini”.

Davide Riccio 12.01.2003


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