Posted on

L’Amore notò la solitudine in riva al mare e chiese: perché rimani da sola mentre il mondo intero cerca sempre qualcosa? La Solitudine osservò l’Amore negli occhi e rispose: Perché tutti cercano qualcuno o qualcosa soltanto per non sentirsi soli mentre, io, vivo da sola per incontrare te, dentro di me” (Marcello Maini)

Cari Lettori, Ferragosto è sempre momento di riflessione e di bilanci. Forse perché rappresentava il primo giorno delle ferie dell’imperatore Augusto o perché la Chiesa lo identifica come momento dell’ascesa in Cielo di Maria (con Anima e Corpo) o forse semplicemente per il motivo che, oltre questo spartiacque, le vacanze volgono al termine… ma è così.

Ognuno con il suo vissuto, con la sua storia, piccola o grande che sia.

Ma ogni umano si presenta al bilancio con una caratteristica base che accomuna tutti, almeno come tonalità di fondo. Nel riempire poi la tavolozza della vita ognuno procede a suo modo.

Come eravamo (The Way We Were) è un film del 1973 diretto da Sydney Pollack e interpretato da Barbra Streisand e Robert Redford. Collocandosi nel genere delle storie d’amore ambientate su uno sfondo di grandi avvenimenti storici, ottenne l’Oscar per la miglior colonna sonora e la nomination (alla Streisand) come miglior attrice.

Dalla seconda metà degli anni Trenta fino ai primi anni Sessanta, passando per la seconda guerra mondiale e il maccartismo, il film narra la tormentata storia d’amore tra Hubbell Gardiner, giovane e bellissimo esponente dell’alta borghesia statunitense e Katie Morosky, appartenente alla Lega della Gioventù Comunista.

Basta questa premessa per capire che Come eravamo” è un film sull’incomunicabilità esistenziale che diventa insanabile per via dell’incapacità di mediare fra l’egoismo dell’Io e la disponibilità all’apertura verso l’Altro, rendendo impossibile la crescita della pianta di un Amore che avrebbe potuto essere puro e senza compromessi, lontano dagli eventi e dal passare del Tempo…

Dobbiamo partire dal fatto che “ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e inevitabile origine nell’egoismo”.

Ce lo ricorda con la sua ferma dolcezza Giacomo Leopardi con inarrivabili riflessioni presenti in quel gran libro, stampato postumo, che è lo Zibaldone, giustamente definito “il dialogo di un grande con sé stesso”.

La parola “Io”.

In Psicologia rappresenta una struttura psichica (organizzata e relativamente stabile) deputata al contatto ed ai rapporti con la realtà, sia interna che esterna. Nella grammatica della lingua italiana, “diventa” un pronome personale che indica un “soggetto” il quale, in quanto tale, non è disponibile a subire l’essere considerato un complemento “oggetto”.

La sua derivazione etimologica trae origine dal greco “Ego” che, con l’aggiunta di “ismo” (suffisso che tende a formare parole astratte che indicano dottrine o atteggiamenti) diventa, guarda caso, egoismo

“Io” è una ben piccola parola per contenere il nostro egoismo, che è tanto grande. (Madame Amiel-Lapeyre)

I saggi sostengono che noi nasciamo per portare avanti un progetto. Per quanto si possa speculare su ciò, non si può fare a meno di concludere che al di là di evolvere le nostre capacità (nel bene o nel male) migliorando la gestione del nostro potenziale genetico e restituendo il tutto (con gli interessi) a “fine corsa” come si fa con i prestiti bancari, non si può andare.

Carl Gustav Jung, ci ha condannato ad una sorta di “fine pena mai” spiegando la presenza dell’Inconscio Collettivo come una sorta di matrice comune e trasversale in cui tutti siamo compresi e che, intrisa di “germi” e “lieviti” ci proietta ineluttabilmente verso il Futuro.

Volenti o nolenti.

La Natura (o chi per lei), magnanima, ha creato un escamotage per indurci a darci da fare: la possibilità di godere. In alternativa (come ci ha spiegato Freud con la teoria del “dualismo pulsionale” e il rapporto fra Eros e Thanatos), la voglia di “morire” per ricominciare e avere, quindi, (presumibilmente) altre occasioni.

D’altronde, per avere dei figli, bisogna generare quello che i Fisiologi chiamano “orgasmo” e i Neurologi “petit mort” (piccola morte)  che quindi è, al tempo stesso, piacere e morte.

I Filosofi, descriverebbero questo particolare momento di intimità, come l’inizio e la chiusura del cerchio della vita. Dalla Fine, un nuovo inizio, insomma. Il tutto cercato, è bene ricordarlo, con sommo Egoismo.

E allora, fin da bambini ci insegnano a coltivare al pianta del narcisimo che ci porta a cercare il piacere da ogni esperienza, anche quella negativa (fatte salve le situazioni in cui l’imprevisto ci pone di fronte al dolore).

Anche nella sofferenza, il discorso non cambia più di tanto.

Quante volte agiamo schiavi delle nostre abitudini “familiari”? Quando proviamo ad andare oltre lo steccato del recinto in cui la ripetitività ci confina, soffriamo al punto da essere tentati di rifugiarci dentro dei “Gompa” (templi buddhisti anche molto piccoli, all’interno dei quali potersi ritirare e pregare cercando la pace) mentali di arcaici comportamenti.

Il meccanismo dell’adattamento.

Chi ce la fa, va avanti, chi esita, “scompare”. Dall’epoca degli schiavismi ammantati di logica correttezza, a smodate tirannie dei tempi moderni… Mao Tse Tung (che fa bombardare il suo quartier generale per eliminare un apparato che stava imborghesendosi); Pol Pot (che cerca di applicare il modello marxista leninista, tentando di riproporre il modello contadino ed eliminando fisicamente milioni di persone che mostravano di avere anche solo un minimo di cultura); Stalin e compagni (che internano nei gulag ogni possibile minaccia per la rivoluzione bolscevica); i tanti presidenti degli Stati Uniti d’America (da Richard Nixon a Trump, in ordine di tempo) che, per espandere e imporre il proprio modello di protettorato democratico hanno destabilizzato intere aree geografiche internazionali.

Ognuno, a modo proprio, cerca di mostrarsi dal lato della ragione. Quanti governanti si muovono spinti da principi di interesse nazionale? 

“Per noi e per gli amici le leggi si interpretano; per gli altri si applicano” (Giovanni Giolitti)

I pensieri dello Zibaldone, sopra riportati, vanno dal 1819 in poi e non hanno il sapore dell’antico ma, semmai, appaiono di una sconfortante modernità: “Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo… vi è entrato l’universale egoismo: amicizia vera e capace di far sacrificare l’un amico all’altro, in persone che abbiano interessi e desideri è ben difficilissimo”.

Da quanto premesso finora, non appare neanche tanto strano quanto riportato dalla stampa relativamente alla tristissima graduatoria di chi avrebbe dovuto essere  “intubato” e chi no, in caso di insufficienza respiratoria da CORONAVIRUS. “Ovviamente”, agli ultimi posti, sarebbero stati inseriti i “diversamente abili”, i “meno utili alla vita economica del Paese”.

Questioni di Egoismo? Problemi di IGNORANZA, CATTIVERIA e PAURA, semmai.

È da chi soffre che si impara ed è dai più anziani che viene quella tradizione che, poi, si trascrive nel DNA e ci rende più resistenti. E, infatti, il “rispetto” di Enea (che ha portato in salvo il proprio padre Anchise sulle spalle) ha generato la Storia dell’Impero Romano mentre, la durezza di Sparta (e la sua rupe Tarpea) ha ceduto alla Filosofia e al ragionamento di Atene.

“Ciò che abbiamo fatto per noi stessi muore con noi. Ciò che abbiamo fatto per gli altri dura per sempre.” (Harvey B. Mackay)

Cari Lettori, ci permettiamo di ricordare che l’ingresso, a Gerusalemme, di un Redentore di nome Gesù è avvenuto esattamente una settimana prima della sua resurrezione dalla morte sulla croce ed è ricordato, ancora oggi come il giorno della “Domenica delle Palme” che fa seguito al “Sabato della resurrezione di Lazzaro

Una persona che mostra di saper pensare e che risponde al nome di Antonio Chiaia (per i più intimi, familiarmente “Totino”) ci ha fatto omaggio, tempo fa, di una interessante riflessione elaborata da un padre seminarista e che riguarda la vicenda di Lazzaro, dal vangelo di Giovanni. 

Gesù dice alle sorelle: “Scioglietelo e lasciatelo andare” (v.44). Noi possiamo leggere questa semplice frase come una frase magica di Gesù. Ma possiamo leggerla più in profondità come qualcosa che riguarda anche la nostra vita. E’ chiaro che Lazzaro è paralizzato dalle sorelle, da queste donne che lo soffocano, che gli impediscono di vivere, che gli tolgono l’aria, tutto lo spazio: sono delle donne dilaganti. Donne che prese dai loro problemi “mangiano” anche tutto lo spazio di Lazzaro. Quando esce, dice il vangelo, è avvolto da bende: e cosa sono le bende se non tutte quelle relazioni, quei rapporti che lo ingabbiano, lo legano, lo soffocano, lo stringono fino ad ucciderlo? I piedi sono la strada, l’andare, il camminare: Lazzaro non aveva nessuna autonomia, era succube nel suo andare, legato, non aveva nessuna possibilità di scelta. Le mani sono il nostro fare, il nostro produrre, la nostra creatività. Lazzaro è soffocato, legato, si trova immerso in una situazione dove non sa fare o non può fare nulla, non c’è spazio di movimento, di manovra e di libertà per lui; non può emergere ciò che vorrebbe fare, diventare; non può esprimersi, tutto è già deciso. Il volto è l’identità di una persona. Lazzaro non ha volto, è nessuno, non sa chi è, non si conosce. Che Lazzaro ci sia oppure non ci sia è la stessa cosa, perché nessuno lo vede, a nessuno interessa il suo volto. Lazzaro è avvolto. E’ chiaro che Marta e Maria si sono “mangiate” il loro fratello, e Lazzaro non trovando una sua fisionomia, soffocato, muore. Poi depongono Lazzaro in un sepolcro e vi rotolano una pietra sopra: si sbarazzano del morto. 

Riflettendo su questa interessante analisi, torna alla mente il concetto di “madre coccodrillo” che, idealmente, (come ci spiega lo psicoanalista Jacques Lacan) cannibalizza il proprio figlio in un rapporto “fusionale” che gli impedisce ogni principio di autonomia e, poco alla volta, lo spegne in un circolo vizioso in cui la madre “divora” il figlio che, a sua volta, “divora” la propria madre…

In sostanza, un mal posizionamento delle cure genitoriali (frutto di personalità non propriamente equilibrate) che finisce col somigliare alla metafora dell’olio descritta dal neuropsichiatra Franco Fornari: “Messo sull’insalata, l’olio è un ottimo elemento; messo su un vestito, diventa una macchia fastidiosa”.

Ma allora, non cambierà nulla, col trascorrere del tempo?

Il Tempo, in sé, non è altro che l’unità di misura di eventi che si determinano all’interno di un periodo di osservazione.

Quello che conta, quindi, è la maturazione di un individuo, la sua capacità e disponibilità ad investire oltre la punta del suo naso, a riconoscere il valore dell’altro come diverso da sé e fonte di innovazione e sviluppo.

L’egoismo è certo una caratteristica inseparabile dall’uomo, che riguarda l’amor proprio. Ha una dimensione anche positiva, nella relazionalità tra i simili, ma quando è mal diretto e male impiegato tende solo alla ricerca di propri vantaggi, rifiutando di privilegiare i sentimenti legati al sacrificio, alla virtù, all’onore, all’amicizia.

L’uomo, nella sua migliore qualità, è un animale sociale e prova realmente benessere – ce lo ricorda Comte – quando vive per gli altri. In questo caso produce benessere sia sociale che individuale.

Il nemico dichiarato, quindi, del nostro tempo è l’egoismo che si presenta come un “male di vivere” su cui Montale ha scritto versi di straordinaria efficacia.

Le parole più alte, nei nostri giorni, le dobbiamo a papa Francesco che ci ricorda: “Dove c’è egoismo, non c’è vita. Se vivo per me stesso sto seminando morte”.

La domanda centrale oggi è pertanto questa: “come si combatte l’egoismo, una volta che si è giunti alla consapevolezza di tante sue negatività legate ad una visione ristretta e angusta della vita?”

L’egoismo si argina, si circoscrive e si utilizza nella sua parte feconda solo stando insieme agli altri e individuando nobili obiettivi comuni e condivisi.

Al centro del nostro proficuo operare debbono esserci dei valori irrinunciabili e non negoziabili. Essi sono idealità che rinviano alla azione. Anzi esigono l’operatività altrimenti diventano parole vacue e prive di senso.

Dobbiamo avere come luci guida, come stelle polari la solidarietà, la resilienza, la lotta contro la disuguaglianza, l’accoglienza e l’inclusione dei più deboli, la pace e la giustizia.

Insomma, riconoscere l’altro in tutta la sua importanza.

Non più, quindi, “ama il prossimo tuo come te stesso” quanto, piuttosto “ama il prossimo tuo come prossimo tuo!”

Questo, il medico psicoterapeuta Giovanni Russo, lo chiamava Egoismo Positivo,  in grado di individuare nel benessere altrui  non una fonte di invidia da svilire ma, semmai, una risorsa cui attingere, in cambio di adeguata riconoscenza.

L’Io, quindi, visto come Elemento capace di mediare fra i desideri sfrenati del “bambino” (l’Es) e i rigidi codici morali (Super-Io), in grado di consentirci un oggettivo esame di realtà e un’adeguata capacità di giudizio, attraverso una buona immagine della propria persona, il controllo delle pulsioni e una valida tolleranza delle frustrazioni

Esiste, dunque, un lato “bello” dello specchio dell’anima, in cui possiamo rivederci attraverso la lettura di questa splendida poesia di Antonio Rizzuti (professore, filosofo, meridionalista e counselor): “Erano il tuo stupore e il mio silenzio. Timidamente i nostri cuori vacui si scoprirono. Pena di sguardi, sorrisi acerbi, teneri sospiri trattenuti. Io cerco la tua mano, si uniscono le nostre solitudini, il mondo è ai nostri piedi solo se mi cingi la spalla. Questo sei tu, un’alba nuova. Per me.” 

Leopardi definisce l’indifferenza una “nebbia gravissima” che va a braccetto con l’assuefazione.

Ci abituiamo a tutto, purtroppo: alla violenza, al non rispetto delle regole, a badare ai fatti nostri, a non guardare la sofferenza e il dolore.

Con uno scatto di umano orgoglio dobbiamo abbandonare questo egoistico tran tran quotidiano, mettendo al centro del nostro agire la comunità con tutto quello che di bello e buono possiede.

Solo così, al termine dell’esistenza, “la vita peserà di più sulla bilancia”.

Come eravamo….

Cari Lettori, come augurio per questa simbolica seconda metà dell’anno (da ferragosto in avanti) vorremmo sottoporre alla vostra attenzione alcuni frammenti del film da cui questo editoriale ha preso il titolo e che sono intensamente espressi nell’immagine di copertina. Non riporteremo, pedissequamente, i contenuti dei dialoghi ma, più opportunamente il senso degli stessi.

L’ inizio di questo frammento è sicuramente una perla emotiva: Katie è nel letto di ospedale, dopo aver partorito… e sa che da quel momento Hubbell se ne andrà perché ha mantenuto la sua promessa. “Ho montato la culla”… Lei, prima gli rivolge uno sguardo difficile da descrivere e, poi, tira indietro la testa cercando di trattenere le lacrime. Il momento della percezione dell’abbandono che ricorda, ad ognuno di noi, l’angoscia provata quando (da piccolissimi) abbiamo capito di essere “soli” e che prende il nome di “Lutto originario”.

Nel finale, i testi originali (in Inglese) esprimono ancora meglio gli stati d’animo.

Quando Hubbel chiede della bambina, lei risponde: “E’ bella, è bellissima: tu ne saresti orgoglioso”….

“Is he a good father?” (“lui è un buon/bravo padre?”) Questo esprime il doloroso tentativo di sublimare il bisogno di una paternità di cui non è riuscito ad assumersi le responsabilità e i “doni” che tutto ciò comporta.

Nel momento in cui lei chiede di portare anche la nuova compagna a farle visita lui risponde : “I can’t come ,…. I can’t …” (“non posso venire …, non posso”). Il filosofo austriaco Rainer Maria Rilke ci ricorda che “Per sempre prendendo congedo: così noi viviamo”.  Eppure, la purezza degli sguardi di Hubbel e Katie ci ricorda che l’Amore è, anche, un tentativo di “trattenere”.  E, infatti, culmina la scena commovente dell’abbraccio con, alla fine, un “see you…” che non è un addio ma un “ci vediamo ….”

Ricordi…
illuminano gli angoli della mia mente.
Ricordi come acquarelli sbiaditi,
Foto sparpagliate
dei sorrisi che abbiamo lasciato dietro di noi:
sorrisi che abbiamo destinato ad altri.
Per come eravamo,
può essere che era tutto così semplice allora

o invece è il tempo ad aver riscritto tutto…
se avessimo la possibilità di ricominciare
dimmi: lo faremmo? Potremmo?
Ricordi…
possono essere ancora belli.

Il nostro amico “Totino” ci ha ricordato che la parola “Io” ha perso, tanto tempo fa, la consonante “D”. Forse è successo con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. O, forse, questa “D” che ci renderebbe così simili a “D”IO, non l’abbiamo mai avuta.

Perchè. forse, così come un figlio può conquistare la possibilità di guidare un’automobile (simbolo di libertà e autonomia tipici dell’adulto) solo una volta maggiorenne e dopo un adeguato training formativo, l’essere umano attende la maturità necessaria senza perdere, però, la spontaneità del “fanciullo”. In questo modo, forse, nello “iato” del pronome “io”, si incide un intaglio nel quale si alloca, perfettamente la “D”. quando il tempo, ovviamente, è giunto. Un radicale libero che ottiene l’equilibrio ritornando dove tutto è cominciato.

Perchè, in fondo, dopo l’ultimo giro di giostra, si torna sempre a “casa”.

Auguri.

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per aver suggerito molti degli aforismi presenti e ad Antonio Chiaia (per gli amici “Totino”) per l’ottimo spunto di riflessione.